Storia della Camera del Lavoro di Massa Carrara

A differenza delle associazioni operaio che inizialmente si formarono in tutta Italia sotto il nome di Società Operaie di Mutuo Soccorso, nell’area apuana il fermento organizzativo delle maestranze si indirizzò in un primo momento verso la ricerca di forme rivoluzionarie capaci di concretizzare istanze di profondo rinnovamento.

Nell’evolvere dei processi appena descritti la Camera del Lavoro di Massa-Carrara si trovò a fronteggiare un crescendo di sfide, a partire da quell’«orizzonte industriale da progettare e ricostruire» di cui Maurizio Munda parlava nel 1996. La chiusura delle grandi partecipate statali aprì crepe profonde nella classe operaia, al pari della sconfitta del referendum sulla scala mobile del giugno 1985. La linea disposta dal segretario generale Angelo Fruzzetti (1981-1990) riuscì comunque a mobilitare le maestranze in modo significativo, aumentando il monitoraggio sulle condizioni di lavoro (lavoro irregolare, evasione contributiva, igienicità degli ambienti) e le diseconomie ambientali.

La vicenda territoriale che più di ogni altra riunì questi due aspetti (occupazione e salute) fu quella della Farmoplant, la cui chiusura venne decretata al termine di un’annosa battaglia nel novembre 1991. La spinta unitaria dei sindacati per una trasformazione e diversificazione produttiva dello stabilimento uscì pesantemente sconfitta dalla tornata referendaria del 1987, dando inizio ad uno smantellamento progressivo che portò a mesi di cassa integrazione e di accordi non mantenuti. Gli stessi lavoratori che nel 1991 avevano dato il loro consenso alla cessazione dell’impianto, ricevendo in cambio la garanzia di nuova occupazione, il 20 luglio del 1994 si trovarono ad occupare la fabbrica (passata sotto la proprietà della Cersam) e a bloccare il tratto Massa-Avenza dopo essersi visti recapitare 152 lettere di licenziamento. A farle partire era stata la bocciatura del rinnovo della cassa integrazione da parte della Commissione interministeriale per la programmazione industriale, adducendo alla «mancanza di progetti credibili di reindustrializzazione» e al rifiuto di considerare come tali le opere di bonifica.

A ben vedere l’«odissea» della Farmoplant – così definita da Vladimiro Frulletti su «l’Unità» – rientrava in un quadro più ampio, caratterizzato dall’onda lunga dell’inflazione del 1986 e dall’arretramento dello Stato nell’economia: nel gennaio 1990, dopo l’Italiana Coke e in parallelo al Nuovo Pignone, era stata la direzione della Dalmine ad annunciare il licenziamento di 1.200 lavoratori, denunciando il Consiglio di fabbrica per il blocco delle portinerie e avanzando una richiesta di risarcimento di 15 miliardi di lire (in pratica l’intero deficit del 1988). Di fatto il collasso della storica conformazione della Zona Industriale Apuana andava a coincidere con la vasta ristrutturazione degli assetti contrattuali e delle relazioni industriali sancita dai protocolli del 1992 e del 1993, quando il primo governo guidato da Giuliano Amato (28 giugno 1992 – 22 aprile 1993) aveva ottenuto il sì del sindacato all’abolizione della scala mobile e al varo di una manovra «lacrime e sangue» con l’obiettivo di domare l’inflazione e riconquistare la fiducia degli investitori internazionali.

Le dimissioni di Bruno Trentin – poi ritirate – che seguirono la firma dell’accordo del 1992 (con l’obiettivo di evitare una crisi di governo, tra confederazioni e interna alla Cgil) suscitarono una grande eco e movimentarono una fase segnata sia dal crescente scontento delle base che da durissimi scontri ai vertici sindacali. Ciononostante i confederali guardarono con favore al provvedimento, scorgendovi la possibilità di favorire lo sviluppo economico e la crescita occupazionale mediante l’allargamento della base produttiva ed una maggiore competitività del sistema delle imprese: il riconoscimento del doppio livello contrattuale sembrava poter salvaguardare il livello generale della contrattazione collettiva, consentendo di mantenere la rappresentanza politica dei lavoratori dipendenti e di riservare al livello decentrato dell’azienda una presenza all’interno dei luoghi di lavoro. Al contempo il governo prometteva di impegnarsi nel consolidamento dell’occupazione attraverso la programmazione degli investimenti pubblici, il finanziamento di iniziative innovative, la definizione di programmi di interesse collettivo e il ricorso ai fondi previsti dagli interventi comunitari in materia di formazione professionale.

Con la firma venivano così sistematizzati a livello nazionale gli orientamenti di protocolli e accordi “partecipativi” che si erano già diffusi negli anni ’80, rispondendo agli obiettivi di politica economica disposti dal Trattato di Maastricht. Tuttavia, non si trattò di processi esenti da conseguenze. Il tentativo di «contenere conflitti che potevano essere incanalati da crisi industriali, privatizzazioni e dismissioni» e di evitare il «contagio dalla crisi distruttiva che stava abbattendo i partiti storici» portò ad un calo dei tesseramenti e ad una sostanziale difficoltà nel comprendere ed accogliere le nuove forme di lavoro precario (in particolare quelle deregolamentate dal già richiamato “pacchetto Treu”). Non solo: nel controllo delle dinamiche salariali per il raggiungimento degli obiettivi di risanamento economico, i nuovi spazi di azione e di programmazione di cui il sindacato si trovò a godere scontarono nella concertazione una palpabile riduzione progressiva dei margini di conflittualità.

Ciò avvenne anche a Massa-Carrara, dove alla grande mobilitazione dell’autunno del 1993 per la sostenibilità ambientale dell’industria e alla promulgazione di una nuova norma sugli agri marmiferi che – su sentenza della Corte Costituzionale – ribadì la proprietà comunale delle cave seguì un complesso adattamento alla continua flessibilizzazione del lavoro. L’azione dell’Agenzia sviluppo industriale – tra il 1988 e il primo decennio degli anni Duemila – garantì un’opera di reindustrializzazione nell’area ex Coke, pattuendo con la Regione e i sindacati il riconoscimento della cassa integrazione di tre anni per gli ex operai ed il reintegro occupazionale di alcune centinaia di essi grazie anche alla linea di Luciano Bertoneri (segretario generale della Cgil di Massa-Carrara dal 1990-1999). Estremamente complessa si rivelò invece la vicenda della Olivetti, che ai problemi di produzione sommò la necessità di ridurre i costi del personale: tra il 1995 e il 1996 l’azienda tentò di alleggerirli attraverso il ricorso alla cassa integrazione, prima di chiudere definitivamente i battenti nel corso del 1999 (dopo il passaggio dell’impianto alla Synthesis) e mettere in cassa integrazione straordinaria 117 addetti.

La proliferazione della piccola-media impresa negli ex siti della Zona Industriale Apuana non riuscì a garantire un recupero dei precedenti livelli occupazionali, al netto lapalissiano di un crescente numero di unità produttive, dell’affossamento di un possibile sistema basato sull’industria diffusa e della fallimentare operazione legata ai tre soggetti fuoriusciti dalla Conferenza di programmazione del 1990: il Business Innovation Center (Bic), l’Evoluzione della Ricerca Industriale nel Territorio Apuano (Erica) ed il Consorzio Innovazione e Sviluppo Acciaio nelle Costruzioni (Crea). Di conseguenza, la risalita del tasso di disoccupazione proiettò anche sulla provincia di Massa-Carrara quella tendenziale decrescita della sindacalizzazione che segnò l’intero paese: dai 16.768 tesserati del 1991 la Camera del Lavoro apuana scese ai 14.714 del 1997, riflettendo un processo che – nelle mutazioni occupazionali – coinvolse in modo particolare la Filcea, la Flai, la funzione pubblica (dai 2.096 tesserati del 1990 ai 1.542 del 1999) e la Fillea (dai 1.714 del 1990 ai 1.008 del 2000). L’unica inversione positiva venne fatta registrare dallo Spi, in corrispondenza al tasso di invecchiamento della popolazione: dalle 8.050 schede del 1990 l’organizzazione dei pensionati salì alle 9.660 del 2000, contribuendo alla graduale ripresa confederale che avrebbe caratterizzato l’inizio del nuovo millennio.

Pur parziali, i dati appena riportati possono aiutare a comprendere meglio la fase di assestamento che il sindacato si trovò a vivere negli anni Novanta. Evidenziata dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e soffocata nel «mito» comunitario della flexicurity, la nuova esplosione del lavoro precario lasciò – almeno in un primo momento – una fetta crescente di lavoro subordinato e parasubordinato al di fuori di qualsivoglia copertura rappresentativa. Un processo che investì soprattutto i giovani, come Paolo Marini (nominato segretario generale della Camera del Lavoro di Massa-Carrara nel 2000) riferiva alla giornalista de «l’Unità» Verena Gioia:

Tra il 1988 e il 1990 c’è stata una deindustrializzazione della provincia di Massa-Carrara con una perdita secca di seimila posti di lavoro. Fino al 1996 la situazione è stata grave, alcuni comuni sono stati anche commissariati. Ora alcune aziende sono ripartite. L’aspetto più anomalo è che in una provincia di duecentomila abitanti, i contatti di collaborazione continuativa sono ben 5.600. Un call center della Lunigiana dà lavoro a ben ottanta ragazze, peccato che tutte siano assunte con una collaborazione, che è la forma di flessibilità più precaria. Altra nota dolente […] è l’esperienza delle borse di lavoro del 1998. Le aziende che assumevano dei giovani venivano sostenute economicamente dal governo per la cifra di ottocentomila lire. La proposta era quella di “testare” il neoassunto per un anno e in caso di assunzione definitiva c’erano sgravi fiscali triennali. Su quattrocento borse di lavoro nessuna si è trasformata in contratto, tutti sono stati rimandati a casa.

Una ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro arrivò di lì a poco con la legge n. 30 del 2003, emanazione dei principi contenuti nel Libro bianco sul lavoro predisposto dal giurista Marco Biagi e dal ministero del Welfare: un pacchetto volto a liberalizzare la somministrazione della manodopera e ad inserire una nuova regolamentazione nel lavoro part-time, chiedendo ai lavoratori costante duttilità di fronte alle esigenze del mercato e delle imprese.

Nel venire meno di diritti e protezioni sociali, ad ogni modo, tra le partite più importanti per la Cdl di Massa-Carrara continuava ad esserci quella relativa alla sicurezza sul lavoro. La questione toccava soprattutto la realtà delle cave, dove la diminuzione degli incidenti non equivaleva ancora ad una definitiva risoluzione del problema. Certo, il quadro si presentava ben diverso da quello che Guido Piovene aveva dipinto anni prima nel suo celebre Viaggio in Italia (1954), quando a bordo di una «piccola teleferica, quasi un cesto appeso al vuoto», era salito sulle Apuane per assistere al «pericoloso lavoro dei lizzatori che [facevano] scivolare a valle […] i blocchi squadrati». Ma le nuove tecnologie comportavano ugualmente rischi da monitorare: «costruiscono strumenti che tagliano il marmo come il burro», ricordava ancora Marini; «il filo diamantato è uno di questi. Quando salta un diamante è come una schioppettata. Chi sta vicino è rovinato».

Nell’aprile del 1997, ad esempio, un operaio di 42 anni era rimasto ucciso dallo scoppio di una mina. La tragedia aveva dato inizio ad uno sciopero finalizzato ad ottenere maggiori controlli, norme sulla sicurezza più stringenti e una concreta applicazione delle regole: si trattava infatti della quarta vittima dell’anno, stando al report in cui il dipartimento della prevenzione dell’Usl di Massa-Carrara aveva stimato una media di un incidente di cava al giorno nel triennio 1994-1997. Solo un mese prima, a marzo, una «micidiale frusta di filo di diamante» staccatasi da sotto il marmo aveva colpito a morte un altro cavatore di 57 anni, portando sui banchi di Roma – dove erano state avviate le trattative per il rinnovo del contratto nazionale del marmo – la centralità del problema: ne erano seguite manifestazioni e proteste, invitando la Asl ad implementare la sorveglianza ed il governo ad assicurare l’obbligo di monitoraggi continui.

La scampata tragedia del 1999, quando il crollo di una “tecchia” distrusse un’azienda fortunatamente vuota (l’episodio avvenne di domenica, salvando i trenta operai), aprì nuovi tavoli di discussione attorno a quella che risultava ormai un’impellenza: fu soprattutto il lavoro dell’ingegner Maura Pellegri – responsabile della sicurezza nel lavoro presso la Asl locale – a promuovere un aumento delle ispezioni, scomponendo e affrontando singolarmente le diverse criticità. Dal 2000 al 2006 il tasso di incidenti nelle cave rimase comunque allarmante, aggravato da ritmi sempre più elevati, dall’esasperato sfruttamento dei bacini e da una pericolosità insita nella professione: «si continua a stare troppo vicini alle macchine, ai camion e alle gru», osservava la stessa Pellegri. «È pericoloso perché mentre i piazzali dove si lavora sono sempre gli stessi, le macchine sono sempre più grandi. […] Più ore si lavora, più si è affaticati, meno si sta attenti. E infatti la maggior parte degli incidenti li registriamo quando c’è stanchezza, o prima delle vacanze o a fine giornata».

Nelle «splendore fermo del marmo», pertanto, i nodi della sicurezza e del mercato occupazionale seguitavano a costituire un intreccio inscindibile. Dalle otto ore al giorno contrattualizzate (39 settimanali, con sabato e domenica di riposo), spesso si arrivava a lavorarne dodici. «Non è inconsueto vederli arrivare a 50 ore settimanali», spiegava Francesco Bertolucci (segretario della Fillea Cgil di Massa-Carrara, che al tempo contava più di 800 iscritti) nel 2006: «del resto lo stipendio (circa 1.200 euro al mese) è quello che è e lavorare di più significa guadagnare di più. Una volta era diffusa la pratica del “nero”, del fuori busta. Anche perché poi anche parte del marmo veniva rivenduta al nero: oggi invece si utilizzano gli straordinari, anche troppo, ma non in tutte le cave è così».

Una parziale differenziazione era costituita dalle cooperative, che trovavano i loro riferimenti provinciali nella Coop Canal Grande, nella Lavoratore e nella Gioia per un totale di 200 occupati. A fronte di paghe più basse, la struttura cooperativa garantiva maggiori forme di tutela dinnanzi ai rischi di sfruttamento. Restava il fatto che tanto i soci quanto i cavatori dipendenti potessero ottenere la pensione solo dopo 40 anni di contributi: differiva nel merito la pensione di vecchiaia anticipata, dopo che con il d. lgs. n. 503 del 30 dicembre 1992 era stata disposta una graduale elevazione dei requisiti di età e di assicurazione e contribuzione per coloro che avessero compiuto il cinquantacinquesimo anno di età e maturato un’anzianità contributiva di almeno vent’anni (requisito valido a partire dal 1° gennaio 2001). La relativa mobilitazione della Cgil portò ad una raccolta di firme da presentare al Parlamento europeo, coadiuvata dalle pressioni esercitate sul ministero dai deputati locali Elena Emma Cordoni, Fabio Evangelisti e Mario Ricci: lo scopo era quello di portare il pensionamento dei cavatori allo stesso livello dei minatori, abbassando cioè la soglia a 35 anni nel riconoscimento di «lavoro usurante».

L’impegno di Giulio Conti (sindaco Ds di Carrara) puntava intanto al completamento della strada dei marmi e al riassetto dei bacini marmiferi, ricevendo il supporto del governatore regionale Claudio Martini sotto lo slogan di «scavare meno, scavare meglio»: dalle 90 cave attive nel 2006 l’obiettivo era quello di tornare attorno alle 30, promuovendo l’ottimizzazione e il rilancio dell’attività in una fase in cui la leadership di Carrara aveva iniziato a subire sempre più i colpi della concorrenza internazionale turca, cinese e indiana e veronese – almeno nella trasformazione dei blocchi informi. Rientrava in questo quadro l’aumento della produzione apuana di carbonato di calcio (soprattutto ad opera della multinazionale Omya), utilizzato per vernici, vetro, dentifrici, cosmetici, alimenti e per la carta stampata offset: una tonnellata di prodotto – compresa l’imposta comunale, inferiore ai quattro euro – arrivava a costare tra i 7 e gli 8 euro e veniva rivenduta da un minimo di 25 ad un massimo di 120 euro. Una media di 50 euro a tonnellata. A tal proposito, Legambiente aveva fatto notare come nel solo 2005 su 5 milioni di escavato solo il 18% figurasse composto da blocchi. Un dato che, se da un lato non costituiva certo un allarme per gli industriali (giacchè fino a pochi anni prima il carbonato era considerato uno scarto ed un costo da smaltire), dall’altro evidenziava come in alcuni casi la montagna venisse oramai scavata solo per ricavare la «nuova polvere», tanto da indurre la regione ad innalzare normativamente la quota minima di blocchi al 25%. A chiedere maggiore solerzia erano oltretutto gli ambientalisti e la Cgil, esprimendo la necessità di alzare la soglia almeno al 30%: «i sassi», sottolineava il segretario generale della Camera del Lavoro apuana Patrizia Bernieri (2005-2014), «rischiano di portare via anche l’occupazione. È un’attività che ha un grande impatto ambientale e le cui ricadute sul territorio sono scarse».

Le vicende delle cave avrebbero animato anche gli anni successivi, consolidando uno dei terreni rivendicativi più caldi. Una fase – i primi anni Duemila – non semplice per i sindacati e la Cgil, nonostante la graduale risalita nei tesseramenti ed un progressivo radicamento nelle nuove categorie lavorative e di occupazione precaria. Il 9 gennaio 2003 la città di Carrara si era risvegliata profondamente scossa dall’atto vandalico che aveva colpito la sede della Camera del Lavoro: ad essere distrutti erano stati solo i simboli (tra cui un’opera di marmo raffigurante due mani strette in segno di pace, cimeli della Confederazione, quadri legati alla Resistenza, una rappresentazione del Quarto Stato ed una bandiera di Che Guevara), con minimi danni al resto. Un «atto intimidatorio e politico», come l’aveva definito Paolo Marini, che suscitò reazioni di carattere provinciale e regionale: alle manifestazioni cittadine si sommarono cortei e scioperi spontanei, come alla Riv-Sfk, ai Nuovi Cantieri Apuania e alla Tirrenia Macchine. Proprio alla Riv-Sfk – peraltro – pochi mesi prima i lavoratori avevano deciso di autotassarsi per acquisire una nuova sede di produzione (sottraendo il 2% dalla busta paga per mantenere l’occupazione), mentre ai Nuovi Cantieri Apuania la Cgil avrebbe di lì a poco riproposto modalità conflittuali sull’esempio di Melfi per evitare la chiusura dell’impianto e spostarvi nuove commesse al fine di evitare il blocco della produzione.

Sullo sfondo restava aperta la questione ambientale. Come anticipato, l’inserimento di Massa-Carrara nei siti di interesse nazionale – definiti del decreto Ronchi nel 1997 – trovò piena attuazione il 21 dicembre 1999: l’alto tasso di inquinamento da metalli, pesticidi, solventi, fenoli, idrocarburi e polveri di marmo aveva contribuito ad esacerbare i rapporti tra industria e popolazione, al di là centralità da essa rivestita sul piano socioeconomico. Le operazioni passarono sotto la gestione del ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare con il d. lgs. 152/2006, decretando – tramite il d. l. n. 468 del 18 settembre 2001 – che le condizioni e i termini per l’erogazione dei finanziamenti previsti dovessero essere regolamentati attraverso specifici accordi sottoscritti da Stato, regioni ed enti locali competenti. Così avvenne nel maggio 2007, con l’affidamento all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale di uno studio per la bonifica della falda e la messa in sicurezza dell’area.

Tutto ciò condusse ad un nuovo accordo nel marzo del 2011, focalizzato sulla definizione delle finalità generali di bonifica e sulla messa in sicurezza dell’area attraverso una serie di finanziamenti che affidavano l’onere della bonifica alla parte pubblica e riconoscevano ai privati la possibilità di beneficarne tramite appositi accordi transativi con il ministero. Attorno era tornata però ad affacciarsi una fase di crisi occupazionale che connetteva alle problematicità locali gli effetti del crollo finanziario internazionale, esasperando una situazione già complessa ed una percentuale di disoccupazione nuovamente a due cifre. Alla fine del 2008 – al netto di ciò – il totale dei tesserati alla Camera del Lavoro di Massa-Carrara aveva toccato quota 16.672, simboleggiando il progressivo rilancio della presenza sindacale nelle nuove faglie del mondo lavorativo. Tre in particolare erano allora i terreni di discussione, destinati ad ampliarsi nel corso degli anni successivi: l’area Eaton, i Nuovi Cantieri Apuania e il polo industriale Nuovo Pignone.

La multinazionale statunitense – attiva nel settore della componentistica di auto ed insediatasi a Massa nel 1985 – subì enormemente gli effetti dell’esplosione della bolla speculativa sull’industria metalmeccanica automobilistica, mettendo a rischio il lavoro di circa 350 dipendenti diretti e di 50 impegnati nei servizi: dall’ottobre 2008 Cgil, Cisl e Uil spinsero così per aprire un confronto permanete con l’assessore regionale al Lavoro Gianfranco Simoncini, specialmente dopo il ritiro di un’importante commessa per la Fiat. Mentre ad Aulla le 85 operaie della Ica di Pallerone convogliavano le loro proteste verso una serie di cortei che conobbero il loro apice il 3 dicembre 2008 (quando il sindaco di Aulla Roberto Simoncini si mise alla guida della manifestazione indossando la maglia «Donne, mica oggetti!»), tensioni simili erano state registrate anche nel settore degli edili e delle costruzioni: in provincia di Massa-Carrara lo sciopero generale indetto dalla Cgil aveva toccato punte del 90%, soprattutto tra i lavoratori del marmo. Ma era la Eaton a mantenere il centro dell’attenzione di sindacato e Regione, tra le denunce del governatore Claudio Martini ed un continuo susseguirsi di scioperi ed incontri che coinvolsero l’intero settore manifatturiero. Nonostante l’interesse del governo e l’istituzione di una Commissione regionale speciale per il lavoro a Massa (l’altra task-force era stata disposta per Livorno), il 17 ottobre 2008 la prima trattativa fra rappresentanze e direzione aziendale saltò. L’incontro nella sede Assindustria di Carrara non portò infatti ad una convergenza di vedute: i sindacati avevano chiesto di ridiscutere i termini della chiusura dell’azienda, avanzando eventualmente la prospettiva della cassa integrazione; da parte aziendale invece l’accento era stato posto solo sulla sicurezza all’interno dello stabilimento, mentre fuori circa mille operai avevano preso parte allo sciopero provinciale di otto ore indetto dai metalmeccanici.

Nuove manifestazioni ebbero luogo nel mese di novembre: tra Eaton e Nuovi Cantieri Apuania furono circa 400 gli operai che sfilarono la mattina del 10, spinti dal rischio della perdita di quasi 1.500 posti di lavoro. Contraccolpi che segnarono anche la Evam Spa di Antonello Galleni (il cui 92% del pacchetto azionario era di proprietà comunale), costretta a ridurre il personale da 24 a 15 unità: i sindacati riuscirono comunque ad accordare sette riassorbimenti in aziende pubbliche – tre all’Amiu, uno a Massa Servizi e tre a Gaia – e due accompagnamenti alla pensione, con un’integrazione di 500 euro nell’indennità di mobilitazione.

Alla Eaton la trattativa si schiacciò viceversa sulla cassa integrazione, con la chiusura dello stabilimento disposta per il 23 dicembre 2008. La richiesta sindacale di una Cig straordinaria di 24 mesi guardava ad un piano biennale per la reindustrializzazione dell’area e avanzava nel pacchetto richieste un incentivo di 20.000 euro netti da erogare a tranche ai lavoratori durante i mesi di cassa integrazione (750 euro lordi al mese); una sorta di compensazione tra la busta paga standard e la retribuzione ridotta prevista dalla Cig, equiparando nei fatti uno stipendio pieno. La mattina del 4 dicembre le maestranze dello stabilimento bloccarono ugualmente la statale Aurelia, ricevendo il supporto dei camionisti, mentre nella sede della provincia la società stimava in 22 milioni di euro il prezzo di vendita per i 76.000 metri quadri dell’area. Di fronte criticità della situazione gli operai decisero di concretizzare così un gesto eclatante, facendosi immortalare nudi in un calendario venduto simbolicamente a cinque euro per mantenere viva l’attenzione sull’azienda.

La chiusura dello stabilimento metteva fine ad un anno complesso, anticamera di un 2009 ancora più impattante. Le proteste alla Eaton avevano accompagnato quelle dei lavoratori del Consorzio Apuano Trasporti e la crisi della nautica, all’interno della quale andava consumandosi la tortuosa vicenda dei Nuovi Cantieri Apuania. Nella fattispecie, dopo lo scioglimento di Sviluppo Italia, sindacati ed enti locali avevano chiesto con insistenza uno spostamento della discussione nelle sale del ministero dello Sviluppo Economico, suggerendo un possibile passaggio dei Nca in Fincantieri. All’incontro del 26 settembre 2008 avevano preso parte le segreterie nazionali e provinciali di Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uilm-Uil, una rappresentanza delle Rsu di Nca, il sindaco di Carrara, il presidente della provincia di Massa-Carrara e l’assessore al Bilancio della regione Toscana con l’obiettivo di tutelare l’occupazione dei 200 lavoratori dei cantieri e dei circa 800 dipendenti delle aziende terziste che vi svolgevano lavorazioni in appalto, mantenere la costruzione delle grandi navi ed evitare una virata verso la cantieristica da diporto (che avrebbe giustificato una potenziale riduzione di manodopera). L’interesse governativo per l’area non portò però al concretizzarsi dell’operazione, lasciando aperte prospettive apparentemente orientate verso la privatizzazione.

Nel dicembre 2008, dopo vari rimandi da parte del ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola, i sindacati disposero pertanto il blocco degli straordinari e della flessibilità, proponendo nella persona del segretario provinciale Uil Franco Garbati di occupare la prefettura. La possibilità fu accolta anche da Patrizia Bernieri, valutata nell’ottica di lanciare un segnale da un territorio «ormai […] ammalato grave». «Un’azione come quella proposta da Garbati? Tutti i mezzi sono buoni per ottenere il tavolo a Roma», aggiungeva Sergio Zangolli, segretario della Cisl: «sarebbe un’azione eclatante non muoverci da lì finché il governo centrale non risponde […] su Nca. Sono amareggiato anche per il silenzio dei ministri Bondi e Matteoli: un silenzio letale, stupefacente e non ammissibile. Il fatto che qui governi il centro sinistra non è un buon motivo per non essere ascoltati. Di fronte a una crisi così grave, chi governa e chi sta all’opposizione, deve superare gli steccati. […] Le previsioni per il 2009 sono ancora più drammatiche».

La stima dei 2.000 lavoratori in meno con cui si apriva il 2010 della provincia di Massa-Carrara costituiva in effetti la cartina tornasole di un triennio estremamente complesso sul piano occupazionale e socioeconomico, tanto sul fronte operaio quanto su quello imprenditoriale e dei servizi. Nel progressivo smantellamento del sistema pubblico, a pagare uno dei prezzi più salati fu il sistema scolastico provinciale. Fiaccato dagli effetti della riforma Gelmini, quest’ultimo perse 220 posti nel solo 2009: unità del corpo docenti, supplenti, precari e donne si trovarono a subire la scure di un provvedimento che, come avvertiva Fabrizio Rocca, segretario provinciale della Cgil Scuola di Massa-Carrara, «non avrebbe riguardato solo l’occupazione», ma conseguito anche un «effetto distruttivo sull’intero sistema della scuola elementare e sui processi pedagogico-educativi dei nostri figli». «È significativo che non abbiano tagliato un solo centesimo di finanziamento alle scuole private», evidenziava pochi mesi dopo, mentre «in compenso sono stati tolti 43 milioni di fondi ordinari all’insegnamento pubblico. A Carrara abbiamo sei domane di tempo pieno alle elementari che non vengono accolte; inoltre a livello provinciale ci sono 154 insegnanti di sostegno, a Massa ci sono 181 ragazzi diversamente abili e solo 54 di loro hanno il sostegno. Ma la cosa che più mi preoccupa», concludeva, «è il taglio previsto di decine di migliaia di euro ai salari dei lavoratori che guadagnano in media 1.200 euro al mese».

Proprio dal mondo dell’istruzione apuano era arrivato nel 2009 un secco “no” al referendum per il contratto collettivo nazionale per i lavoratori dei comparti di ministeri, agenzie fiscali ed enti pubblici siglato separatamente da Fp-Cisl e Uil-Fpl. La tornata segnò una netta vittoria della Fp-Cgil, che l’aveva promossa a livello nazionale: a Massa-Carrara recarono al voto 1.870 lavoratori della scuola (sui 3.403 che ne avevano diritto), con soli 49 “sì” e 21 schede bianche o nulle. Tra le agenzie fiscali e le sedi fiscali dei ministeri, dei 982 impiegati provinciali visitarono invece le urne in 476 (il 48,5%, con picchi di astensionismo alla sola Marimuni di Aulla), per 423 “no” e 45 “sì” (Inps, Inail e Inpdap avevano fatto registrare un 97% di “no”). Agitazioni e compattezze che si svilupparono rapidamente anche in campo sanitario, dove operatori, medici, infermieri e amministrativi tentarono di far sentire la propria voce contro le sempre più gravi carenze legislative, strutturali e organizzative del sistema. La bolla locale esplose da questo punto di vista nel 2011, quando i tagli disposti per la Asl-1 per fronteggiare un debito di circa 270 milioni di euro – conseguenza forzata del commissariamento disposto dalla regione nel 2010 – tradussero in piazza dipendenti statali, addetti del Centro unico di prenotazione (che contava 50 posti a rischio), delle cooperative sociali, della pubblica assistenza, delle case di riposo, della Croce bianca e della Croce verde. Nel dicembre 2011 Filcams Cgil, Fisascat Uil e Uiltucs parlavano di circa 100 richieste di cassa integrazione in deroga pervenute agli uffici sindacali e firmate per il 2012, ma anche di continue riduzioni orarie denunciate dagli operatori di assistenza psichiatrica e dal personale addetto alle assistenze domiciliari. A rischio risultava anche la mensa ospedaliera, con una previsione del 50% in meno degli addetti, primo passo di quello che veniva percepito a tutti gli effetti come un tentativo di chiusura definitiva in vista di un accorpamento con la mensa del Versilia.

Altri fronti erano vennero intanto aperti nel campo dei servizi postali, dove la Slc Cgil, la Slp Cisl e la Uil Poste si trovarono a contrastare i tagli al personale e la riduzione di orario disposti per gli uffici di Altagnana, Canevara, Forno, Caprigliola, Bedizzano, Gragnana e Groppoli Mulazzo. Ancor più eclatante divenne la vicenda dei 57 dipendenti della Costa Mauro (operativa nel trattamento dei rifiuti), che la mattina del 14 ottobre 2009 invasero il palazzo comunale di Aulla e trattennero nel suo ufficio il sindaco Roberto Simoncini per protestare contro il rischio licenziamento. Nella progressiva crisi del settore metalmeccanico nuove vertenze furono poi registrate alla Effe Meccanica (subentrata nel 1999 alla Tema-Frugoli Spa e considerata un’eccellenza nel settore per l’alto livello tecnologico-qualitativo dei suoi prodotti) e nel settore edile, mentre dopo settimane di trattative la Axaff di Villafranca – che inizialmente contava su 107 lavoratori ed un notevole indotto – chiuse definitivamente i battenti nel dicembre 2010 mettendo in mobilità gli ultimi sette dipendenti rimasti. Non da meno fu la lotta imbastita dalle 50 maestranze della Ciet di Massa (impegnata nelle installazioni telefoniche), che nell’ottobre 2009 si incatenarono ai cancelli dell’azienda dopo il mancato arrivo dei soldi pattuiti per la cassa integrazione straordinaria.

Al protagonismo della Cgil in sede di contrattazione sembrava corrispondere il riemergere di una conflittualità spontanea, legata ad espressioni di economia morale che ponevano al centro il contrasto all’erosione dei diritti e dell’assetto produttivo apuano: emblematica la protesta del gennaio 2012, quando al termine di una manifestazione organizzata da Cna, Confartigianato, Confcommercio, Confesercenti, Legacoop e Coldiretti furono consegnate al prefetto Giuseppe Merendino 1.000 chiavi di aziende che erano state costrette alla chiusura nel corso del 2011. Nondimeno la Camera de Lavoro continuò ad accrescere il numero dei propri tesserati, superando ampiamente le quote di inizio anni Novanta: erano 17.173 gli iscritti alla fine del 2012, testimonianza di una presenza sempre più trasversale e incisiva nell’universo occupazionale apuano.

Del resto, pur non risolutive, nel corso del 2011 erano state apposte alcune firme importanti. Al Nuovo Pignone l’accordo di programma stipulato nel dicembre 2011 tra regione, comuni di Massa e Carrara, azienda e porto di Carrara aveva previsto la creazione di attrezzature e di piazzali per l’assemblaggio, la movimentazione e il collaudo nell’area Yard, una serie di interventi sulla viabilità delle strade interne alla ex Zona Industriale Apuana (con un finanziamento di circa 1.400.000 euro supportato dalla provincia e dalla regione) e l’adeguamento del ponte sul torrente Carriona a Marina di Carrara. Appartenente al gruppo G. E. Oil & Gas, il polo sarebbe dovuto divenire uno dei fulcri del rilancio produttivo apuano: al suo interno era stati portati avanti investimenti importanti anche sul fronte ricerca, come l’elaborazione e lo sviluppo del progetto Atene per potenziare i laboratori universitari e ad istituirne uno pubblico-privato – il PontLab – con il supporto regionale. «Apprezzo la scelta di valorizzare il Nuovo Pignone in quanto azienda che investendo in innovazione ha deciso di implementare la sua presenza a Massa-Carrara», commentava nel 2010 Patrizia Bernieri: «dovrà essere raccolto l’invito della direzione non solo a migliorare l’aspetto infrastrutturale […] ma anche favorendo l’insediamento come ha fatto il comune di Massa con la delibera del cambio di destinazione d’uso, mentre per la Cgil dovrà anche essere data risposta alla possibilità di creare qui le professionalità di cui l’azienda necessita».

Dopo tre anni di durissima vertenza un primo accordo fu raggiunto anche alla Eaton. Dal 2008 il processo di rivendicazionismo aveva portato le maestranze a stoppare il turno di notte e gli straordinari, bloccando più volte il traffico cittadino ed occupando per diversi mesi la fabbrica: come gesto di solidarietà, era stato il prefetto Merendino a raggiungere lo stabilimento per festeggiare il capodanno 2010 con le quindici famiglie operaie che avevano deciso di restarvi dentro; e non furono pochi gli operai che chiesero al comune la possibilità di integrare la cassa integrazione con lavori stagionali, vista la scadenza della mobilità fissata per il dicembre 2011.

Nel marzo 2011 venne comunque siglato un protocollo d’intesa tra il ministero dello Sviluppo economico, la regione Toscana e le istituzioni locali al fine di lanciare la reindustrializzazione dell’area. In un primo momento le istituzioni palesarono l’intenzione di acquisire il sito industriale per riproporlo a medie e grandi imprese, mentre la giunta regionale decise di affidare a Fidi Toscana un mandato esplorativo per valutare opportunità di acquisto e ricollocamento. Nel 2012 con la legge regionale n. 50/2012 furono stanziati così cinque milioni di euro per dare inizio alle operazioni, prevedendo la disposizione di un pacchetto di incentivi ad hoc in grado di rendere attrattivo l’insediamento per le imprese, una ricognizione delle aree disponibili e l’avvio di operazioni di scouting (entro marzo 2013). Ai Nuovi Cantieri Apuania la Cgil avanzò invece uno strenuo contrasto alla possibile privatizzazione dell’azienda, con gli operai che nel settembre 2009 – in assenza di garanzie sul futuro – ostacolarono a lungo il varo della nave Grimaldi: dopo mesi di bilico tra chiusura e vendita, in un continuo susseguirsi di tavoli con enti locali, regionali e governativi per ovviare ai licenziamenti seguiti alla fine della mobilità, nel 2012 il cantiere venne acquistato dalla Admiral Tecnomar, azienda italiana di produzione e progettazione yatch che promise inizialmente il mantenimento dei 400 operai attivi nell’indotto.

Passaggi importanti, eppure trampolini incapaci di conferire un vero e proprio slancio alla ripresa occupazionale e produttiva della provincia. Le acquisizioni furono infatti seguite da intoppi che ritardarono non poco gli impegni presi in campo occupazionale e produttivo, mentre ai Nuovi Cantieri Apuani (divenuti parte di The Italian Sea Group) seguirono licenziamenti e denunce per motivi disciplinari che – attraverso la dure prese di posizione dei segretari generali provinciali Paolo Gozzani (Cgil) e Franco Borghini (Uil) – aprirono nuovi terreni di scontro con la proprietà.

La flessione del settore edile e costruzioni sospinse nel frattempo presidi unitari di grande impatto, tra le manifestazioni in difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (nel marzo 2012 furono oltre 200 a protestare al Nuovo Pignone) e vertenze rilevanti come quella che nel marzo 2011 vide protagonisti i trenta operai della Fermet (azienda impegnata nelle demolizioni industriali e civili). Nel dicembre 2012 nuove istanze furono portate all’attenzione degli enti amministrativi anche dai consorzi di bonifica, in vista della negoziazione per il rinnovo del contratto collettivo nazionale. Ad animare preoccupazioni e proteste restava poi la questione ambientale, dalla Intermarine (più volte colpita dalle alluvioni del Magra) al settore lapideo.

Dopo la stipula del contratto collettivo regionale del maggio 2009 (che aveva garantito un aumento mensile di 33,66 euro lordi, una una tantum di 500 disposta per il marzo 2010, un’indennità giornaliera di 40 centesimi per i lavoratori disagiati e l’aumento del ticket restaurant a 3,50 euro), anche quest’ultimo si era trovato a fronteggiare l’impatto della crisi. Tra il 2007 e il 2012 erano stati 2.000 i posti persi, tra incerte prospettive di rilancio e una competizione sempre più serrata sul mercato dell’export. Il cambio di rotta chiesto dal sindacato aveva suggerito un riesame della legge regionale n. 78/1998, con l’obiettivo di dare omogeneità ai contributi sul marmo in tutti i comuni del distretto, contenere l’inquinamento da polveri sottili (come denunciava a gran voce Giorgio Favullo, presidente provinciale della Fita, la Federazione autotrasporto aderente alla Cna) e di lanciare un unico marchio «etico» di certificazione attraverso la creazione di una scuola del marmo polivalente e la promozione di ricerca e innovazione. «Se va avanti così il settore della trasformazione morirà per sempre. Colpa di un modello vecchio e superato. Gli industriali dovrebbero vendere i blocchi a prezzo di favore alle imprese locali che li lavorano, in questo difficile momento.

Timori e preoccupazioni esplosero – sull’onda lunga della crisi – con ancora più forza tra il 2014 e il 2016, quando la promulgazione del Jobs Act renziano caratterizzò ulteriormente il graduale spostamento dalla centralità del lavoro alla centralità del mercato. Nelle cave il numero di morti e feriti era tornato a salire: le proteste del novembre 2012 – guidate da Cgil, Uil, Cisl e Cobas – per ulteriori aumenti salariali e l’introduzione di un premio di presenza giornaliero facevano infatti da sfondo a nuove tragedie, come quella che il 7 settembre dello stesso anno aveva visto morire un cavatore di 47 anni in seguito al distaccamento di una lastra di marmo. Restava poi la questione dello sfruttamento dei bacini, con lo stop della Regione – licenziato nel Piano di indirizzo territoriale del 2014 Territorio e ambiente – all’apertura di nuove cave e l’allestimento di un complesso tavolo di confronto e scontro con gli imprenditori del settore e l’Associazione Industriali di Massa-Carrara.

Nel 2014 gli operai della Fermet arrivarono invece a cinque giorni di sciopero della fame, ricevendo supporto dal governatore Enrico Rossi dopo i costanti solleciti della segretaria provinciale Fiom Luisa Pietrini; poco dopo, in aggiunta, furono i 38 lavoratori della Massa Minerali Srl a bloccare con i mezzi pesanti l’imbocco della strada dei Marmi (ricevendo la solidarietà delle 70 maestranze della Omya) dopo la ricezione di un fax con cui era stata comunicata loro l’immediata procedura di licenziamento.

Nel 2014 la Confederazione Nazionale dell’artigianato e della Piccola e Media impresa arrivò a stimare 4.000 disoccupati in più rispetto all’inizio della crisi, con 43 aziende fallite nel 2013 e 232 chiuse nel solo primo trimestre del 2014: a queste cifre dovevano essere correlati i circa 42.000 apuani inattivi tra i 15 e i 64 anni, dentando un tavolo di crisi portato all’attenzione dell’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. La situazione spinse la regione a disporre una serie di agevolazioni per l’area, collocata in quelle di «crisi complessa». Il governatore della Toscana pose sul piatto anche una serie di investimenti da convogliare verso l’attività portuale (13 milioni da parte del ministero dei Trasporti, altrettanti dalla regione e 9 dall’Autorità portuale), proponendo il commissariamento della ex Zona Industriale Apuana per agevolarne il rilancio. La parallela mobilitazione dei sindacati fu anticipata da un comunicato congiunto nel quale venivano elencate le criticità della zona, definendo – come evidenziava Paolo Gozzani – una trasversalità problematica di difficile risoluzione.

La spinta delle rappresentanze verso la conferma della provincia di Massa-Carrara come area di «crisi complessa» guardava alla necessità di completare opere ritenute necessarie da anni, in particolare la bonifica della zona industriale (al cui interno il sindacato operò una dura campagna contro l’installazione di supermercati e centri commerciali). Parimenti le criticità strutturali continuavano a palesarsi su più fronti, in particolare attraverso le oscillazioni dei Nuovi Cantieri Apuani e nei disattesi riassorbimenti occupazionali dell’area ex Eaton: nel 2016 la Iglom – una delle aziende più solide ed uno dei migliori esempi di reindustrializzazione – disertò quasi tutti i tavoli programmati dal sindaco di Massa Alessandro Volpi e dal presidente della provincia Narciso Buffoni, dopo aver assunto solo 21 dei 72 ex lavoratori (oltre a 24 operai esterni). Non meno problemi arrivavano dall’indotto della Nuova Pignone, dove le continue minacce di licenziamenti per gli operai attivi nelle ditte in appalto finirono per segnare una costante (esemplificativi i casi dei 68 operai della G. E. Oil & Gas di Massa e dei 52 della Fc Imballaggi), e dalle realtà cooperative del Terzo settore (come per la Cooperativa Serimper), la cui attrattiva continuava a risultare bassa tra la forza lavoro. Nuovi incidenti mortali al porto e nelle cave portarono infine alla ripresa di scioperi e proteste, con i cavatori fiaccati dalla diminuzione delle commesse e da ritmi di lavoro sempre più difficili da sostenere (nel novembre 2019 era stato firmato il nuovo Contratto collettiva nazionale dei lapidei).

L’impegno della Cgil fu segnato anche in questa fase da risultati importanti, come le 29 stabilizzazioni e i 19 milioni di euro investiti al Nuovo Pignone (tramite il conferimento di un ramo d’azienda alla Aero Service Technologies), la conquista di diritti civili sui luoghi lavoro (emblematica la vicenda della Sfk, quando nel 2015 fu inserita per la prima volta nel contratto di lavoro la tutela delle coppie di fatto), l’estensione delle tutele ai lavoratori migranti e l’accordo raggiunto con la già ricordata Iglom per l’assorbimento dei 50 operai vacanti. Nel 2015 la CdL arrivò così a toccare i 17.558 iscritti, con l’apertura nel novembre 2015 di due nuove sedi ad Aulla (in via Nazionale) e a Massa (presso l’Ospedale delle Apuane) e la presenza sul territorio lunigianese di un responsabile di zona nella persona di Paolo Guerra.

Vicende che hanno accompagnato gli ultimi anni tra nuovi e vecchi spazi di discussione, problematizzati dallo scoppio della pandemia e da possibilità di programmazione sempre più soffocate. La lotta dei sindacati per garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro durante il Covid-19 ha portato inizialmente le sigle principali a chiedere uno stop delle produzioni, considerando l’alto tasso di mortalità che colpì l’area nel corso delle prime ondate. Un monitoraggio che tutt’oggi resta costante, subordinando la produttività alla salute. Nel frattempo la lotta dei cavatori ha portato al conseguimento di un importante pre-accordo per l’integrativo, descritto in questi termini dal nuovo segretario generale della Cgil apuana Nicola Del Vecchio: «Siamo riusciti a pattuire una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario tramite nuovi permessi, aumenti salariali, più formazione. Un importante passo avanti. Abbiamo sostenuto con forza la necessità di una diversa redistribuzione della ricchezza che portasse nelle tasche dei lavoratori del settore cifre importanti visto che il settore è in ripresa». La vicenda ha calamitato anche le attenzioni de «l’Humanité», lo storico giornale francese fondato da Jean Jaurés, che nell’ultimo mese di agosto ha riservato un lungo servizio (À Carrare, un progrès social gravè dans le marbre) alle lotte dei cavatori e ai progressi sociali conseguiti dalla Cgil con interviste alle maestranze e al segretario Fillea-Cgil Leonardo Quadrelli.

Nel 2021 la Camera del Lavoro di Massa-Carrara ha mantenuto un totale di iscritti ben superiore alle 18.000 tessere (18.794, dopo le 18.831 del 2020), registrando un aumento costante nelle categorie Filcams, Spi e tra i disoccupati. Ciò non elude la presenza e la prestanza all’interno di battaglie aspre e di lunga durata, come quella che attualmente sta avendo luogo alla Sanac (leader in Italia nel settore dei refrattari): una trattativa accesasi nel 2016 e tutt’oggi in attesa di risoluzione (nel 2012 la Filctem Cgil vi ha ottenuto il 56% dei voti ed eletto due delegati su quattro). I continui rimandi di Acciaierie d’Italia, che detiene un debito di 23 milioni di euro con Sanac, hanno portato infatti il sindacato a muovere nuovi appelli rivolti al governo e al ministero dello Sviluppo economico.

A ben vedere, nei suoi tentativi di rilancio, di trattativa, di conflittualità e di programmazione la vertenza porta con sé gran parte di quelle complessità produttive e occupazionali – nazionali e internazionali – che già nel 2003 avevano spinto un grande sociologo come Luciano Gallino a parlare di «scomparsa dell’Italia industriale». Il compito che attende le rappresentanze sindacali si presenta perciò quantomai complesso, con l’obiettivo di tutelare e garantire il lavoro lungo dinamiche di concertazione rigide e delicate (basti considerare le ripercussioni del conflitto in Ucraina). Il tutto all’interno di un assetto socioeconomico in continua trasformazione, tra crepuscoli e nuovi orizzonti.

Federico Creatini

09/12/2023


Breve bibliografia di riferimento