Prato


Istituita ufficialmente il 16 novembre 1992, la provincia di Prato è costituta da un gruppo di sette comuni precedentemente appartenenti alla circoscrizione fiorentina. A dominarla sono la valle del Bisenzio e l’ultima sezione di quella dell’Ombrone pistoiese, che le pendici del monte Albano separano dal Valdarno inferiore.

Guardare alla storia occupazionale della provincia significa affondare anzitutto in quella del capoluogo, tra gli epicentri del settore tessile italiano ed il più importante per la lavorazione delle lane rigenerate. Nel periodo che seguì l’Unità d’Italia l’agricoltura pratese trovava le sue strutture portati nell’appoderamento, nella conduzione mezzadrile e nella piccola e media proprietà diffusa: il processo di crescita industriale aveva comportato un graduale frazionamento delle unità poderali, oltre alla riduzione numerica dei pigionali e la messa a coltura di nuove terre per dissodamenti e disboscamenti, accompagnando un aumento della produzione e della produttività.

Il maggior numero di lavoratori era concentrato già allora nelle attività manifatturiere ed industriali, specialmente in quelle legate alla lavorazione delle trecce e dei cappelli di paglia: nel 1896 gli addetti ammontavano a 6.489 per il solo comune di Prato (con un’importante componente femminile), raggiungendo quota 15.000 se considerate le realtà limitrofe (700 a Vernio, 2.125 a Montemurlo e 4.965 a Cantagallo). Connotata da un insistito turno over imprenditoriale, a caratterizzare l’economia locale era poi l’area laniera della Valle del Liri: la pressione a carico della manodopera trovava ben poca resistenza sia nei lavoranti a domicilio – conseguenza della accresciuta redditività dei poderi e dei proventi derivati dalla lavorazione della paglia – che negli operai e nelle operaie attivi nelle filature, ancora scarsamente sindacalizzati. Sul finire degli anni Settanta del XIX secolo nel pratese potevano essere così impiegati 26 operai per ogni 1.000 fusi, due in meno rispetto al Veneto, sei in confronto alla Liguria e sette in rapporto al Piemonte.

Fu la svolta protezionistica del 1887 a conferire uno slancio ulteriore ai lanifici pratesi, alla quale seguì un’impennata parallela nella raccolta, nella cernita e nella lavorazione degli stracci: nel 1911 vi risultavano sintomaticamente impegnate 600 persone in 44 aziende diverse. Al predominio della lana rigenerata si alternavano anche singolarità di natura strategica, non ultimo il grande stabilimento Kössler, Mayer & C. di Prato: sorto nel 1888 e noto come il Fabbricone, con quasi 1.000 addetti e circa 700 telai meccanici produceva esclusivamente lana pettinata procurandosi all’esterno dell’area il filato necessario.

Ben oltre le dimensioni aziendali, a prevalere erano quindi la specializzazione e la crescente flessibilità produttiva. La filatura veniva effettuata in stabilimenti specifici, nei quali a fine Ottocento battevano circa 18.000 fusi con quasi 800 dei circa 1.000 addetti al laniero; analogamente la tessitura – ad esclusione dello stabilimento Forti e di quattro modesti impianti a ciclo completo – era praticata a domicilio da centinaia di lavoranti che pilotavano telai (forniti da industriali tessitori e impannatori) per tessere stoffe in lana o in altre fibre, mentre le opere di finissaggio erano eseguite in piccoli opifici di tintura, garzatura e gualcatura. L’unica cimatoria era invece di proprietà Campolmi, peraltro destinata a crescere e ad articolarsi a partire dall’inizio del XX secolo.

Fu in questa fase che il tentativo di rendere Prato una «città monoorientata» acquisì slancio e vigore. Nel 1911 la popolazione del comune aveva raggiunto quota 56.715 abitanti, 7.216 dei quali attivi nel mondo dell’agricoltura. Gli addetti alla lavorazione della paglia erano passati a 5.832, superando le circa 4.000 unità impiegate nei lanifici. Ciononostante, era su questi ultimi che l’economia locale continuava a puntare: tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX l’area aveva accolto la nascita di nuovi stabilimenti lanieri come quelli Forti, Val di Bisenzio, Romei e Casarsa, La Briglia, Mazzini, Lucchesi, Peyron e Calamai, oltre alla fondazione – nel 1897 –  dell’Associazione Industriale e Commerciale dell’Arte della Lana. L’industria laniera moderna aveva attecchito anche nei territori extra comunali, dando inizio ad una serie di lavorazioni indotte che spaziavano dalle maglierie alle fabbriche di saponi coloranti. Non solo: una crescita altrettanto incisiva venne fatta registrare dal commercio, con la proliferazione di negozianti e di trafficanti attivi sul mercato estero.

La trazione manifatturiera dell’area portò ad una crescita del movimento sindacale, specialmente dopo la crisi che tra il 1907 e il 1908 investì il settore laniero. Dai 649 iscritti del 1905 i tesserati della Camera del lavoro pratese salirono a quota 1.791 nel 1913: la Lega laniera di Prato ne contava a sua volta più di 1.000, riflesso di una dimensione conflittuale quantitativamente e qualitativamente già avanzata. Ciò rispondeva anche all’espansione industriale dell’area ovest della città, dove i lanifici Magnolfi, Forti e Calamai avevano fatto seguito all’istituzione dei nuovi macelli pubblici (situati però in zona S. Trinita).

La guerra segnò inevitabilmente il tasso di natalità cittadino, stimolando al contempo la crescita industriale: durante il conflitto sorsero a Prato 18 delle 28 nuove aziende laniere italiane, in gran parte di tessitura meccanica, a trazione artigiana o per conto terzi. All’aumento dei cernitori di stracci fece sponda quello dei tessili, passati dalle 4.547 unità del 1911 alle 6.850 del 1921 (dal 27,23% al 39,43% del totale addetti dell’industria): a calare fu invece il numero dei lavoratori della paglia, scesi dal 40% al 26% (1911-1921) del totale manifatturiero. Negli anni successivi Prato raggiunse le prime posizioni mondiali per capacità produttiva nel campo laniero, intraprendendo un cammino di concentrazione industriale desumibile dal piano statistico: già nel 1927 10 ditte su 303 – escluso il Fabbricone – riunivano circa 5.000 dei 12.000 addetti di tutto il ramo pratese (senza considerare circa 1.000 cernitori di stracci), settore che nella maggior parte dei casi continuava a restare fuori dai processi di finanziarizzazione e di osmosi con il capitale bancario che stavano coinvolgendo le altre produzioni industriali italiane.

Tra il 1921 e il 1936 la popolazione attiva nel mondo agricolo sopra i dieci anni di età era intanto passata dal 24,6% al 20,6%, mentre quella dell’industria risultava accresciuta di 2,9 punti (dal 55,8% al 58,7): particolarmente eclatante si configurava il risultato del tessile, che dal 39% della forza lavoro manifatturiera era arrivato ad assorbirne quasi l’84%. L’impatto del secondo conflitto mondiale arrecò danni e distruzioni ingenti alla città, tanto agli edifici quanto agli impianti: fino dall’arrivo delle forze Alleate Prato fu comunque in grado di riprendere il proprio ritmo produttivo e di tornare ai livelli prebellici, grazie anche alle commesse disposte dalla United Nations Relief and Rehabilitation Administration. Tra il 1945 e il 1948 l’occupazione tessile crebbe di 12.000 unità (da 10.000 a 22.000), con 47 imprese a ciclo completo ad occupare quasi il 60% della manodopera dipendente. Nel frattempo continuavano a sorgere aziende di impannatori e di lavorazioni specializzate nelle diverse fasi del ciclo laniero (orditure, filature, tessiture), mantenendo intatta la struttura del sistema pratese nella sua bipartizione tra ciclo verticalmente integrato e imprese terziste.

La crisi che colpì il settore laniero tra 1949 e il 1952 frenò l’ascesa produttiva dell’area (complice la crisi delle esportazioni verso l’Estremo Orienti, il Sud-Africa e l’Africa Orientale), segnando un ridimensionamento dei lanifici più importanti e la contemporanea diffusione di piccole e medie imprese. Da 1949 al 1955 le realtà terziste aumentarono da 106 a 252, così come gli impannatori salirono da 183 a 293: con essi accrebbero i propri numeri anche le imprese artigiane (oltre 5.000 all’inizio del 1954) e le lavoratrici e i lavoratori a domicilio (circa 6.000 nel 1954), riflettendo un graduale sgretolamento della struttura verticale destinato a segnare la ripresa industriale pratese degli anni Sessanta. Le imprese tessili con oltre cento addetti, che nel 1951 occupavano il 55% della manodopera, si trovarono dieci anni dopo ad impiegarne solo il 20% (solo il Fabbricone seguitava ad impiegarne un 5%); quelle fino a 50 addetti raddoppiarono invece la quota di occupazione, passando dal 32% al 63%.

Lungo queste traiettorie l’occupazione industriale e tessile mantenne un saldo positivo (+46%, a fronte del +27% regionale), spingendo l’agricoltura verso un ulteriore calo di addetti (l’8% della popolazione attiva contro il 24% della Toscana): l’abbandono del lavoro agricolo fu incentivato anche della continua diffusione per conto terzi nelle frazioni comunali della zona intorno a Prato, in particolare Montemurlo, Montale, Agliana, Poggio a Caiano, Signa, Campi Bisenzio, Sesto Fiorentino e Calenzano. L’aumento del numero di lavoratori in proprio e di coadiuvanti (che nel 1961 sfioravano il 30% degli attivi nell’industria e nelle altre attività) rispondeva nel mentre ad una sostanziale riduzione dei lavoratori dipendenti che, nonostante i termini della crescita industriale, scivolarono dal 66% del 1951 al 61% del 1961. Per comprendere meglio questa correlazione può essere considerato il rapporto statistico tra unità e addetti nel tessile all’interno del decennio considerato: dalle 709 unità del 1951 Prato passò alle 5.115 del 1961, spingendo il numero di addetti da 18.469 a 34.157 (da 26,05 addetti per unità a 6,68); Vaiano crebbe da 13 a 499 unità, con una decrescita da 2.007 addetti a 1.837 (da 154,3 a 3,68); Vernio da 4 unità a 114, portando il numero di addetti da 310 a 447 (da 77,5 a 3,92); Montemurlo da 2 unità a 225, incrementando il totale dei dipendenti da 29 a 607 (da 9,76 a 2,7); Carmignano da 13 a 137 unità e da 27 a 311 dipendenti (da 2,08 a 2,27); Cantagallo, infine, da 7 unità a 95 e da 205 addetti a 253 (da 29,29 a 2,66). Nel 1952 il 70% della produzione guardava verso i mercati stranieri, con 262.000 fusi per cardato, 14.000 fusi per pettinato, 5.5oo telai ed un potenziale produttivo annuo di dieci milioni di metri di tessuto.

Negli anni successivi lo sviluppo del distretto tessile pratese spinse i propri prodotti sempre più verso lo scambio internazionale e nazionale, puntando specificatamente sulla diversificazione e sull’innovazione tecnologica. Dopo la sostituzione – tra il 1954 e il 1973 – delle materie prime naturali (lana, lino e cotone) con le fibre acriliche e sintetiche (in particolare il nylon) il numero delle imprese crebbe ancora, toccando quota 11.000 (1971) e riducendo ulteriormente il numero di addetti per unità (che a Prato aveva toccato ad esempio quota 6.212, con un rapporto unità-addetti di 5,29). Tale sviluppo dovette tuttavia conciliarsi con nuove variabili, legate soprattutto ai flussi migratori – specie da alcune aree del Mezzogiorno, come le realtà foggiane di Panni e Bovino – e ad un processo di assimilazione filtrato da appositi organismi quali l’ICAS e l’Associazione del meridionale pratese. Questa progressiva integrazione rafforzò ulteriormente il potenziale produttivo del settore tessile pratese, che dagli anni Cinquanta poteva avvalersi anche dei comparti lanieri casentinesi di Stia e Soci, rilevati tra il 1956 e il 1957 da industriali locali. Stando ai dati Censis, peraltro, la media dei lavoratori era di dieci anni più giovane rispetto a quella nazionale: maestranze di estrazione sociale prevalentemente di bassa, pur caratterizzate da un’alta percentuale di licenze di scuola media superiore (soprattutto di matrice tecnico-professionale).

La crescita continuò anche tra il 1971 e il 1981, quando le unità locali salirono a circa 14.700 (+34,1%) e gli addetti del tessile balzarono da 50.000 a più di 61.000 (+22,3%). Nel 1981 erano ormai scomparse le unità locali con più di 500 addetti, tradotte in un aumento di peso della categoria di imprese con 15-50 addetti. Attorno alla città iniziò ad essere costruito un vero e proprio brand che passò anche da occasioni e appuntamenti di grande visibilità: nel 1976 l’esposizione Prato produce fornì l’ispirazione alla fortunata Prato Expo, opera di un consorzio di produttori trainati – negli anni successivi – da gruppi di produttori quali TEXMA (meccanico-tessile), CPF, CPM e Promoarredo. Da patria del cardato Prato divenne però sempre più soggetta alle oscillazioni della moda tessile, che nel 1982 – di fronte all’abbandono repentino della lana nel settore – trascinò il distretto in una nuova fase di recessione (su cui influirono l’onda lunga del dissolvimento del sistema monetario di Bretton Woods e della crisi petrolifera del 1973, oltre all’aumento dei prezzi delle materie prime). Tra il 1981 e il 1991, nonostante importanti iniezioni di capitale bancario, i fusi di cardato decrebbero di 220.000 unità (da 770.000 a 500.000), inficiando la rendita di un importante numero di imprese. La Cassa integrazione guadagni ritornò sarebbe tornata a contrarsi solo nel 1991, tra la ricomparsa degli straordinari e dei fuori busta: l’accordo Multifibre per arginare la concorrenza dei paesi emergenti portò oltretutto le imprese a ricercare manodopera con qualificazioni sempre più specializzate, non semplici da trovare nel circondario.

Tra il 1981 e il 1991 il numero di addetti all’industria calò comunque del 28% (la percentuale di operai e operaie era passata dal 57,54% del 1956 al 42,38% del 1986; quella di contadini e mezzadri dal 3,59% allo 0,45%; quella di artigiani ed esercenti dal 16,98% al 17,53%; quella dei professionisti dallo 0,1% all’1,48%; quella degli impiegati dall’1,38% al 6,51%; quella dei lavoratori a domicilio dal 2,31% allo 0,6%; quella delle casalinghe dal 12,47% al 6,71%; quella dei pensionati dal 4,32%al 21,47%), con la scomparsa del 40% delle unità produttive tessili esistenti: poteva essere ritenuta ancor peggiore la situazione del laniero, con indici di perdita del 44% ed un numero di addetti dimezzato. Fu in questa fase che riuscì a penetrare nelle faglie produttive una ricca e importante comunità cinese, tale da far registrare più di 1.400 residenti nel 1993 (quando erano solo 40 quattro anni prima) e destinata ad assumere un ruolo centrale nella componente industriale provinciale.

Nel corso degli anni Novanta, invero, lo sviluppo del meccanotessile e la crescita del terziario furono in grado di conferire nuovo slancio alla provincia. Investimenti di multinazionali e di capitale straniero portarono ad un cambio di assetto la struttura distrettuale, coadiuvati dalla svalutazione della lira (dal settembre 1992 in poi), dal know how acquisito nel corso dei decenni e dal conseguente ritorno di competitività nei prezzi di mercato: dal 1990 al 1993 il valore delle esportazioni pratesi aumentò di circa il 50%, ampliando la gamma dei mercati esteri verso l’Est Europa con prodotti tessili e – appunto – meccanotessili. Eppure, ombre di crisi tornarono ad agitarsi sulla struttura socioeconomica della provincia ad inizio millennio: la mancanza di domanda e il calo del dollaro rispetto all’euro fiaccarono non poco la competitività internazionale delle imprese cittadine, comportando un nuovo ridimensionamento in termini di imprese, fatturato, export e valore aggiunto. La specializzazione dell’area nel comparto tessile restava pressoché esclusiva, ma in termini decisamente minori rispetto al recente passato. In località come Vaiano, Montemurlo e Prato resisteva in ogni caso una fitta concentrazione di attività produttive in grado di realizzare l’intero ciclo di lavorazione, dalla tessitura alla rifinizione, fino alla tintura, animando attività collaterali di produzione e coloranti, macchinari e confezioni ed un oscillante ma sostanzioso indotto commerciale: il tutto sulla base di fattori eterogeni che andavano dalla standardizzazione dei processi alla delocalizzazione delle produzioni nei paesi a basso costo di manodopera, ruotando attorno ad una articolata divisione del lavoro e alla possibilità di rispondere con una flessibilità più o meno marcata alle diverse richieste del mercato. Lo scarso impatto del settore primario e delle colture – da cui poteva essere estratta la tenuta del vivaismo e del florovivaismo, presente in misura ridotta rispetto alla vicina Pistoia – seguitava per di più ad accompagnare un terziario turistico ancora arrancante e largamente inespresso, nonostante la crescita della struttura museale della provincia e la valorizzazione del suo patrimonio storico-culturale (anche sul piano dell’archeologia industriale)

Dopo il duro impatto della crisi finanziaria dal 2008, l’ultima sfida per la manifattura pratese è stata quella legata al Covid-19 (resta ancora da valutare l’impatto del conflitto russo-ucraino, soprattutto in termini energetici e di esportazioni). Nella prima parte del 2021 l’industria tessile ha fatto registrare livelli più contenuti – almeno 5 punti percentuale – rispetto a quelli del 2019, palesando evidenti difficoltà. Nell’ultimo anno il mercato del lavoro è tornato però a mostrare timidi segnali di ripresa, con un ritorno su saldi positivi dei contratti di lavoro a tempo determinato (espressione del saldo positivo registrato dai servizi) e – in misura minore – di quelli a tempo indeterminato (che hanno visto affievolire il loro contributo al risultato complessivo occupazionale). Nel frattempo Prato è stata posta al centro di importanti progetti sperimentali di economia circolare, storicamente presente in città grazie alla pratica del riuso per la produzione della lana cardata e – dagli anni Ottanta del XX secolo – attraverso l’istituzione di un sistema centralizzato e all’avanguardia per la depurazione delle acque di scarico civili e industriali.

Federico Creatini

09/01/2023


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