La provincia di Firenze, nata con gli 82 comuni che costituivano nel 1859 il Compartimento Fiorentino del Granducato di Toscana, ha visto progressivamente ridursi la propria estensione territoriale con la nascita o l’ampliarsi di altre circoscrizioni provinciali limitrofe. Nel 1923 i comuni della zona di Rocca San Casciano furono aggregati alla provincia di Forlì; allo stesso modo, nel 1925 alcuni comuni del medio Valdarno e della zona di Santa Croce passarono alla provincia di Pisa. Nel 1927 la costituzione della provincia di Pistoia sottrasse a quella di Firenze ben dodici comuni, comprendenti gran parte della pianura tra Prato e Pistoia ad alcune zone dell’Appennino Tosco-Emiliano; nel 1992, infine, la formazione della provincia di Prato segnò il distacco dei comuni di Prato, Cantagallo, Carmignano, Montemurlo, Poggio a Caiano Vaiano e Vernio, conferendo alla provincia l’aspetto attuale. Ad oggi i 44 comuni che compongono la circoscrizione fiorentina includono infatti il Valdarno inferiore fino alla confluenza dell’Elsa, le propaggini settentrionali dei monti del Chianti, la valle della Sieve e il tratto dell’Appennino Tosco-Emiliano compreso tra il monte Falterona e il passo della Futa: un territorio pianeggiante al centro e lungo il confine sud-occidentale (Valdelsa), privo di brusche impennate anche in corrispondenza del crinale appenninico.
Alla metà del XIX secolo lo sviluppo industriale aveva reso la provincia una delle più avanzate del Regno d’Italia, complice una produzione vastissima ed eterogenea. Ai tessuti di lana e di seta si accompagnavano trecce e cappelli di paglia, fiori artificiali, porcellane e maioliche (tra cui spiccavano quelle prodotte dal marchese Ginori e dal Cantagalli), coltelli, lime, mosaici, cuoiami, bronzi, oreficerie, fabbriche di terrecotte, laboratori del legno e del marmo, industrie alimentari e di prodotti farmaceutici. Non solo: le cave di marmo verde di Prato (monte Ferrato) si sommavano a quelle di pietra (forte e serena) del monte Ceceri (Fiesole) e quelle di macigni da lastrico del monte Ripaldi, alimentando una florida attività estrattiva.
All’interno di questo mosaico il vero traino era costituito dalla città di Firenze, che all’inizio del XX secolo aveva ormai assunto le forme di un importante polo metallurgico-meccanico e tipografico-editoriale. A differenza delle case editrici e degli stabilimenti tipografici, le fonderie e le officine meccaniche erano state ubicate nel circondario del centro storico, tracciando una dualità nella geografia industriale del capoluogo: era stata proprio quest’ultima – invero – ad animare un tessuto costellato da piccole e piccolissime imprese artigianali (sovente gestite dal solo proprietario), così come da settori manifatturieri largamente improntati sul lavoro a domicilio per il confezionamento di abiti, la preparazione di accessori in pelle, la creazione di tasselli per mosaici e di mobili (quest’ultima già diffusa nell’area di Certaldo) e la lavorazione della paglia da ricamo. Da un’indagine promossa nel 1904 dalla Camera di Commercio era sintomaticamente emerso come la confezionatura di biancheria assorbisse circa 500 operaie cucitrici nella sola città di Firenze, abituate ad operare in autentiche case-laboratori.
Dall’officina al laboratorio, dallo studio alla bottega dell’artigiano, i luoghi del lavoro ruotavano pertanto attorno a quella che Alessandra Berti ha definito una «serie di interazioni e compenetrazioni che rinviavano ad un universo composito e dinamico» tra reminiscenze proto-industriali, universo agricolo e i meccanismi innescati dalla rivoluzione industriale. La maggior parte degli addetti al secondario di Firenze era comunque impiegata in realtà di grande portata quali la Società anonima Fonderia del Pignone, le Officine Galileo, le Officine Ferroviarie e le Regie Manifatture Tabacchi: un nuovo ed unico stabilimento di queste ultime sarebbe stato peraltro inaugurato nei primi anni Trenta, ottimizzando l’inadeguatezza dei due ex fabbricati ricavati dal convento di Sant’Orsola e dalla sconsacrata chiesa di San Pancrazio. A popolare i reparti era una manodopera attiva e aperta alla sindacalizzazione, espressione di un’area caratterizzata da accentuati tratti di conflittualità: nata nel 1893, tre anni dopo la Camera del Lavoro di Firenze appoggiò sintomaticamente una lunga protesta promossa dalle trecciaiole e si impegnò nella promozione di scuole serali per organizzare conferenze e dibattiti in cui giocava un ruolo importante la componente femminile.
I primi anni del XX secolo furono segnati dalla trasformazione di numerose imprese in società anonime, riflesso dell’esistenza di forti concentrazioni produttive e finanziarie: ne erano esempi la fonderia dell’ingegner Pietro Veraci (costituita nel 1905) e la Fabbrica di automobili Florentia, che aumentò progressivamente sia il proprio capitale sociale che la quota di addetti (dai 55 del 1904 ai 195 del 1907). A prevalere era una meccanica di tipo leggero, legata a produzioni svincolate da grandi investimenti di capitale fisso. Facevano eccezione alcune realizzazioni ad alto contenuto tecnologico, su tutti gli strumenti ottici prodotti dalla Galileo per la Marina Militare o le produzioni del Pignone: all’ammodernamento dell’apparato industriale continuava però a non corrispondere un’adeguata razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro, causa principale di scioperi e scontri che conobbero uno dei loro apici nelle lotte al Pignone dell’agosto 1902. Nel capoluogo la proliferazione di unità aziendali piccole e scarsamente meccanizzate toccava anche il già ricordato settore tipografico-editoriale, tra l’azienda guidata dal tedesco Leo Samuel Olschki (1897), lo stabilimento di Antonio Civelli ed una fitta serie di attività commerciali correlate e orientate verso la domanda interna e turistica che già animava la realtà cittadina. Tra queste spiccava la vivacità delle lavorazioni legate alle cosiddette arti decorative ed industriali, connesse alla realizzazione di prodotti artigianali di qualità in ferro, legno, vetro, merletto, marmo e porcellana: a muovere il loro mercato erano apprendisti e piccoli imprenditori, prosecutori della lunga e radicata tradizione manifatturiera cittadina e provinciale. Copiature di opere d’arte, fabbricazione di beni di consumo e di arredi domestici, lavorazioni del vetro e della paglia confermavano l’immagine di Firenze come città d’arte e di cultura, attorno alla quale cresceva un tessuto produttivo sempre più vasto.
Nel primo decennio del XX secolo l’aumento della conflittualità sociale si tradusse in un’ondata di rivendicazionismo che vide tra i suoi protagonisti contadini, muratori, manovali, tranvieri e parrucchieri. Le agitazioni che presero forma nelle campagne a piccola coltura senza irrigazione della piana fiorentina trovavano il loro slancio nella centralità che il comparto agricolo continuava a rivestire nell’economia provinciale: nel 1936 infatti il primario assorbiva ancora il 55% della popolazione attiva, contando su di una superficie agraria e forestale di 370.432 ettari (17.575 restavano quelli improduttivi) e sulla più alta concentrazione mezzadrile della regione (con più di 10.000 unità nel 1931 ed un’altissima concentrazione nel Mugello e nel Casentino). L’area di montagna presentava boschi di castagneti per circa il 51,6% della sua estensione, seguiti per importanza dai seminativi e dai pascoli; quella dell’alta e media collina vedeva al contrario una maggioranza di seminativi arborati, analogamente alle zone di pianura e a quella del colle-piano del Valdarno. L’occupazione rurale restava la più incisiva nelle zone montuose e sui colli del Mugello, rialzando il proprio valore quantitativo nelle pianure del Valdarno inferiore e superiore, della Valdelsa, della Val d’Ombrone e della Val di Bisenzio. Il territorio provinciale presentava al contempo 35.066 proprietà agrarie, di cui 22.670 in collina, 7.788 in montagna e 4.608 in pianura: tra queste ben 14.833 risultavano al di sotto del mezzo ettaro, tra un’alta frequenza nella zona tra Figline Valdarno e Fucecchio ed una più accentuata rarefazione nelle valli di Greve e Pesa (dove prevaleva la grande proprietà oltre i 250 ettari). A ridosso dell’Appennino pistoiese erano diffuse invece le cascine, costituite da prati da pascoli, boschi e seminativi con superfici attorno ai 50 ettari: al loro interno vigeva l’allevamento stabile del bestiame bovino della Chiana e del Chianti (impostato sulla stalla familiare e non su grossi allevamenti), degli ovini e dei suini. Nelle zone del Valdarno superiore e inferiore la piccola proprietà sotto i 25 ettari (situata molto spesso nei pressi dei principali centri abitati per sfruttarne le possibilità commerciali) costituiva infine il perno di un’agricoltura intensiva che – nelle vicinanze di Firenze – si alternava con un tipo di podere irriguo segnato da avvicendamento triennale.
L’ampiezza media delle ditte catastali fiorentine – nel dettaglio – appariva nettamente superiore rispetto a quella della Toscana e del Regno d’Italia (9 ettari le prime, 5,9 le seconde, 3,4 le terze), nonostante l’accentuarsi di una tendenza al frazionamento che aveva portato il numero delle unità fondiarie dalle 22.602 del 1880 (40 per 1.000 abitanti) alle 32.289 del 1930 (46 per 1.000 abitanti). Ne fuoriusciva un quadro in cui la grande e la media proprietà occupava la maggior parte del territorio agrario, lasciando comunque il primato numerico alla piccola (i circa 11.000 piccoli proprietari rappresentavano gli otto decimi dell’intera classe partecipante alla proprietà fondiaria): soltanto il 58% del totale era però intestato come proprietà individuale, con il restante 42% riconducibile – come proprietà indivisa – a più di un proprietario e il 19,28% complessivo gravato da usufrutto; gli affittuari ammontavano a loro volta a 1.629 unità, di gran lunga inferiori rispetto ai coloni.
Nelle campagne fiorentine la produzione più rilevante era quella foraggera (tra il 1930 e il 1934 la media del grano prodotto era aumentata del 38% rispetto al 1920-1924), riconducibile all’ampio sviluppo della zootecnica e all’aumento dei concimi chimici (che segnarono però un flessione crescente dei redditi agricoli); quella della barbabietola da zucchero aveva incentivato parimenti la nascita di una florida industria di trasformazione a Castelfiorentino. Di grande importanza risultavano per di più le colture della vite (colpita dalla fillossera negli anni Trenta) e dell’ulivo, motrici di alcune delle produzioni più importanti della provincia, accompagnando eccellenze quali la cipolla rossa di Certaldo.
La decisione di commercianti e alto-borghesi di investire parte delle proprie finanze nei terreni aveva certamente concorso al formarsi di una proprietà molto estesa attorno al centro urbano di Firenze. Molto spesso ciò era dovuto al fatto che le divisioni ereditarie avessero spezzato i fondi dei coloni, rendendoli insufficienti ai bisogni della famiglia. Nel Mugello l’alta concentrazione di proprietà nelle mani di pochi affondava le sue radici nel XV secolo; viceversa, nella piana tra Firenze e Prato, il frazionamento della proprietà era andato notevolmente accentuandosi di fronte alla richiesta di terra data dalla possibilità di praticarvi un’agricoltura di tipo intensivo: un aspetto, quest’ultimo, che nella valle alta del Bisenzio poteva essere ricondotto alla presenza di industrie, movimenti migratori e da una più alta densità di popolazione.
Negli anni della Grande Guerra, d’altronde, la tendenza ad esternalizzare le attività manifatturiere dai centri urbani era andata consolidandosi: mentre l’arrivo a Firenze di una grande realtà nazionale quale l’industria farmaceutica Menarini da Napoli (nel 1915) aveva incrementato lo sviluppo di un già florido ventaglio di piccole imprese terziste (soprattutto nella lavorazione del vetro), una periferia semi-rurale come quella di Rifredi si trovò difatti ad accogliere realtà del calibro delle Officine Galileo e della Manetti & Roberts. Per lo stesso motivo, alla fine degli anni Trenta, a Novoli-Lippi fu spostata la Fonderia del Pignone e venne inaugurato il nuovo stabilimento Fiat. Campi Bisenzio, Cantagallo, Empoli, Montelupo Fiorentino, Prato, Sesto Fiorentino, Vaiano e Vernio si qualificarono sempre più come centri manifatturieri ad alto tasso occupazionale, tra la diffusione di piccole e medie imprese tessili (soprattutto nel pratese) e la crescita di quelle impegnate nell’abbigliamento, nella trasformazione dei minerali non metallici, nella lavorazione del vetro e nell’alimentare.
Il primo conflitto mondiale conferì una forte spinta industriale all’indotto siderurgico e metalmeccanico fiorentino, pur abbinando all’implemento degli stabilimenti ausiliari (171 a Firenze) il susseguirsi di forti ondate di conflittualità operaia. Le oscillazioni che colpirono il tessile nel primo dopoguerra, destinate alla ricrescita nei primi anni Venti, furono però accompagnate dal progressivo consolidarsi di un fascismo agrario di natura aristocratica che contribuì in modo significativo a reprimere le rivendicazioni dei mezzadri cattolici del Mugello e di quelli socialisti della Val di Pesa. In pochi anni i mezzadri furono immessi nella corporazione e in moltissimi casi iscritti coattivamente al fascio locale, frazionale e aziendale: nel 1937 – emblematicamente – le liste dei tesserati al Sindacato agricoltura della provincia di Firenze presentavano 33.532 coloni, 5.452 salariati e braccianti, 650 impiegati, 292 tecnici agricoli e 2.075 specializzati, per un totale di 43.359 unità. Nel specifico del capoluogo, il censimento del 21 aprile 1936 riportava la presenza di 331.331 abitanti (322.535 la somma dei residenti), dei quali 271.978 collocati nel centro urbano, 24.344 nei piccoli centri limitrofi e 26.216 nelle case sparse (con un largo movimento migratorio che nel 1936 aveva fatto registrare 13.016 immigrati contro 7.510 emigrati): di questi 11.073 erano impiegati nel settore agricolo, 59.003 nelle attività industriali, 11.736 nei trasporti e nelle comunicazioni, 25.190 nel commercio, 2.449 nel credito e nell’assicurazione, 6.849 tra il mondo dei liberi professionisti e quello degli addetti al culto, 14.383 nella pubblica amministrazione, 1.430 in quella privata e 14.200 nell’economia domestica.
Ad ogni modo, quando gli effetti della «battaglia del grano», della «bonifica integrale», la «regolamentazione degli usi civici», le proibizioni di pascolo alla pastorizia familiare, la cessazione della emigrazione interna, l’accentuarsi delle «forbici» tra prezzi industriali e agricoli fecero sentire i loro effetti sui contadini, che iniziarono a prendere contatto sia con i rami marginali e meno importanti dell’industria – prima del 1936 – che con quelli più rilevanti (soprattutto tra il 1939 e il 1943). Nell’empolese, ad esempio, le donne delle famiglie mezzadrili, coltivatrici dirette ed affittuarie cominciarono a lavorare alle confezioni a domicilio di cappotti, soprabiti, trench e – durante la guerra – divise militari, sfidando l’opposizione dei padroni; a Carmignano, invece, l’economia di guerra aumentò moltissimo la richiesta di manodopera al Dinamitificio Nobel, così come per le industrie di Empoli e Signa dedite alla produzione di maschere antigas e di altri oggetti di gomma per la guerra.
Le criticità del conflitto si tradussero in un’eterogenea e complessa fase di riconversione produttiva. In provincia erano state distrutte o danneggiate 7.961 case rurali (per oltre 3 miliardi di danni), capanne e stalle per 1.200 milioni, impianti di fattoria per un miliardo e mezzo; ben 22.177 bovini, 2.768 equini, 1.0344 suini, 262 caprini erano stati razziati; 3 milioni e 650 mila erano state invece le piante distrutte, con costi per macchine e attrezzi non più utilizzabili che ammontavano a 160 milioni. Particolarmente grave era risultato il sequestro delle mucche da latte, equivalente ad 800 capi nel comune di Firenze ed a 3.272 nell’intera provincia. Il ramo agricolo meno colpito restava quello dei macchinari, principalmente perché poco sviluppato; all’appello mancavano infatti solo poche decine di trattrici, di locomotrici e di trebbiatrici (25 nel fiorentino), oltre ad un migliaio di motori vari. In conclusione, i danni generali dell’agricoltura toscana potevano essere stimati oltre i 7 milioni di lire al valore del gennaio 1945 (21 milioni a quello del maggio 1946). Per ciò che concerneva i camporaioli, ossia le piccole unità poderali condotte a mezzadria, era possibile fornire unicamente il numero globale dei poderi che ammontava a 2.373; in media le unità componenti i nuclei – tenendo valida la percentuale di composizione come per i mezzadri – potevano considerarsi 2,50. Il totale delle unità poderali oscillava invece fra le 8 e le 10 mila, animando un universo agricolo in cui nel 1943-1944 lavoravano ancora 1.662 salariati fissi, 816 mesaroli, 2.863 braccianti fissi, 2.578 avventizi permanenti, 2.184 avventizi abituali, 900 avventizi occasionali e 429 avventizi eccezionali (per un totale di 10.799 uomini, 549 donne e 87 ragazzi). [Scheda in fase di approfondimento e completamento].
Nel 1952 il numero di unità locali – che comprendevano ancora Prato – impegnate nell’industria corrispondeva al 42,1% del totale provinciale (ed un terzo dell’intera regione), contando 105.515 addetti totali tra unità amministrative e unità operative locali. A prevalere erano le imprese attive nel vestiario, nell’abbigliamento, nell’arredo ed affini (26,62%), accompagnando l’attività meccanica (21,15%), del legno (13,94%), alimentare (8,83%) e tessile (7,94%). Ad alta intensità di capitale, quest’ultima contava il più alto numero di addetti (24.497, il 23,22%), seguita dalle realtà del campo della meccanica (18.339, il 17,38%), del vestiario (12.939, il 12,26%), dalle industrie per la trasformazione dei minerali non metalli (11.404, il 10,81%) e dalle costruzioni edilizie (8.331, il 7,90%): altre cifre significative riguardavano le industrie del legno (5.855 addetti, il 5,55%), quelle chimiche e affini (4.583, il 4,43%) e le industrie poligrafiche ed editoriali (3.497, il 3,31), segnando la netta predominanza del manifatturiero (93.017 addetti, l’88,5%).
Circa le dimensioni aziendali, il complesso industriale della provincia era caratterizzato dalla prevalenza di piccole imprese con un numero di addetti sino a 10 unità; non esistevano grandi complessi sopra le 5.000 maestranze, lasciando spazio ad una produzione incentrata su prodotti di qualità e di precisione: rientravano in questa categoria cuoio e pelli, mobili, cornici, lavori in marmo ed alabastro, ferri battuti, ceramiche e vetrerie. A trainare il settore erano soprattutto i comuni di Firenze, Empoli e Sesto Fiorentino: nel secondo caso all’industria del vestiario, dell’abbigliamento, dei fiammiferi e dell’arredamento (quasi il 40% delle attività locali) si sommava la specialità della lavorazione del vetro verde e bianco; Sesto Fiorentino eccelleva invece nella trasformazione dei minerali non metallici, ma anche nella produzione di terre cotte, maioliche, porcellane, saponi e liscive. La mancanza di risorse minerarie impedì al contempo lo sviluppo dell’industria estrattiva, le cui unità occupavano solo lo 0,79% del totale (e lo 0,69% di addetti). Dopo i buoni livelli raggiunti tra il 1938 e il 1942 quest’ultima crollò sotto la concorrenza del carbone estero, colpendo soprattutto la zona di Barberino di Mugello (dove esistevano estesi giacimenti di lignite xiloide, sfruttati da diverse cooperative) e frenando la possibile produzione di energia termo-elettrica e gassosa (allora l’intera provincia disponeva di un solo metanodotto, gestito dalla società privata che collegava la zona mineraria di Pietramala al capoluogo). Una congiuntura sfavorevole si trovò a viverla anche l’industria delle pietre e del marmo, piegata dal calo di una domanda edilizia sempre più rivolta verso il cemento. [Scheda in fase di approfondimento e completamento].
Oltre a svolgere le funzioni amministrative di città metropolitana e di capoluogo di regione, ad inizio millennio Firenze si presentava come un centro economico caratterizzato da fiorenti attività di servizio, industriali-artigianali e da un’ampia area d’influenza. La maggior fetta di occupati continuava ad appartenere al ramo dei servizi generali di amministrazione pubblica (36.737 lavoratori), con una percentuale pari al 26,1% del totale. Sommando le tre branche rappresentanti il settore terziario, ovvero quelle del commercio e trasporti, dei servizi generali di amministrazione pubblica, istruzione e sanità e delle attività professionali, nel 2015 la percentuale attiva arrivava a raggiungere il 74,5% degli occupati (104.843 persone).
I settori primario e secondario rappresentavano invece una porzione decisamente inferiore; l’agricoltura e l’estrazione restavano complessivamente ferme allo 0,8% (1.119 occupati), mentre il campo della manifattura e delle costruzioni era sceso al 10,1% (14.238 occupati) rispetto al 14,0% stimato per l’anno precedente. Il settore secondario continuava ad essere caratterizzato da piccole e medie imprese appartenenti a svariati rami, che tra i più rappresentanti elencavano quelli della meccanica, dell’elettrotecnica, della chimica farmaceutica, della gomma, dell’abbigliamento, della ceramica, del mobilio. L’editoria, nonostante un calo rispetto a quella di altre città italiane, conservava ancora un certo peso dovuto a una lunga tradizione.
Componente essenziale dell’economia fiorentina rimaneva comunque il turismo, incentivato dalla ricchezza dei monumenti e delle raccolte d’arte, dalle bellezze naturali dei dintorni e dalle numerose manifestazioni culturali, folcloristiche e commerciali: dopo Roma e Venezia, nel 2005 Firenze emergeva come la terza città d’arte più visitata d’Italia con circa 2,5 milioni di arrivi all’anno. L’alto grado di istruzione (nel 2011 il 72% delle persone tra i 25 e i 64 era in possesso di diploma) finiva inoltre per riflettersi positivamente sui dati occupazionali: nel 2013 il 71,1% della popolazione provinciale tre dai 20 ai 64 anni risultava occupato, mantenendo stabile – nonostante il periodo di crisi – il livello registrato nel 2007.
Federico Creatini
09/01/2023
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