Arezzo


Quarta tra le provincie toscane per numero di abitanti e superficie, la provincia di Arezzo confina con quelle di Firenze, Forlì, Pesaro, Perugia e Siena. Collocata sull’Appennino Tosco-Emiliano, vede estendersi le sue propaggini meridionali verso il Pratomagno, l’Altopiano Tiberino, l’Alpe di Catenaia e le montagne collocate tra l’Arno e il Tevere (tra cui l’Alpe di S. Egidio): ad ovest sono invece i monti del Chianti a connotare uno spazio morfologico completato dalle valli del Casentino (nella zona dell’Arno superiore), del Valdarno (in quella dell’Arno medio) e della Valtiberina (nell’area del Tevere superiore).

Già nel corso dell’Ottocento questa conformazione eterogenea aveva garantito un florido sviluppo dell’attività agricola, che negli anni Cinquanta del XX secolo occupava ancora il primo posto per numero di occupati. Nel 1892 un terzo della superficie provinciale era costituita da terreni arabili ed un quinto da boschi (dalle abetine di Camaldoli ai boschi di faggi e cerri del Casentino, dove prevaleva il bracciantato): occasionalmente i coloni e i piccoli proprietari (14.650 nel 1921) affiancavano alla rendita dei campi lavori extra-poderali, nella maggior parte dei casi avventizi. Come osservato da Giorgio Sacchetti, peraltro, non erano rari i casi di una loro provenienza dal ramo minerario: stando ai dati del 1918, nel Valdarno su un totale di 5.056 lavoratori dell’estrattivo ve ne erano 1.818 impegnati nelle gallerie. Le donne invece alternavano all’attività domestica l’allevamento degli animali da cortile, la vendita dei prodotti agricoli e lavori a domicilio o di tessitura, quando non periodi di manodopera stagionale all’interno della tabacchicoltura .

Le coltivazioni principali differivano di zona in zona. Nel Casentino era copioso il raccolto dei cereali, come quello delle castagne, dell’uva da vino (tra cui spiccavano le tipologie talpona, etesiaca e consemina) e delle patate: produzioni capaci di favorire – grazie alla presenza dell’Arno e del Tevere – un valido sviluppo dell’industria agraria nelle pianure di Arezzo e di Castiglione Fiorentino (dai mulini per la macinatura di granoturco, castagne, segale, vecce e civaie a pastifici, birrifici e piccoli zuccherifici), dove spiccava anche la coltivazione dei legumi. In Val di Chiana dominavano le colture dell’olivo, del gelso e della barbabietola da zucchero (specie a Marciano e Fojano), mentre in Val Tiberina 367 ettari di terreno erano destinati alla coltivazione del tabacco.

Alla base di questa pluritattività il vettore principale del primario era costituto dalla componente mezzadrile (nel 1921 si potevano contare circa 10.000 unità), che contribuì a promuovere significative trasformazioni fondiarie nelle aree collinari ed un miglioramento tangibile degli avvicendamenti colturali. A tal proposito, è interessante notare quanto la Camera di Commercio Industria e Agricoltura di Arezzo – durante il 1953, nell’ambito dell’Inchiesta sulla disoccupazione – riferisse in merito all’apporto dei tecnici allo sviluppo agricolo provinciale: «Vale la pena a questo proposito citare l’opera dell’Istituto di Genetica per la cerealicoltura di Frassineto, il quale con le sue varietà selezionate di grano ha decisamente influito sull’indice di produttività del frumento, non solo sull’ambito provinciale, bensì nazionale. Veramente essenziale ai fini del progresso agrario registratosi negli ultimi 50 anni è stato l’apporto dei tecnici dell’agricoltura; a questo proposito è doveroso citare l’opera della vecchia Cattedra Ambulante di Agricoltura e degli attuali Ispettorati; così pure è stato notevole l’apporto di quei tecnici che numerosi nella provincia sono stati preparati in loco, cioè nell’ambiente dell’Istituto Agrario Vegni delle Capezzine». Nel giugno 1951 le colture aretine più diffuse restavano quelle del frumento, dei cereali minori (destinati all’alimentazione del bestiame, soprattutto bovini, ovini – importanti per la produzione della lana e accompagnati in transumanza verso le piane del grossetano – e suini), delle leguminose da granella, delle patate, dei foraggi, della barbabietole da zucchero (in modo particolare nell’Alta Valdichiana e nel Valdarno), del tabacco (con picchi nella Valtiberina e nella Valdichiana), della vite, dell’olivo e degli alberi da frutta. Il tutto all’interno di circa 18.000 unità poderali condotte da mezzadri e di 9.000 piccole aziende guidate da coltivatori diretti, particolareggiando un universo in cui continuavano a muoversi anche salariati e braccianti fissi.

L’ultimazione della linea ferroviaria Firenze-Roma e la realizzazione di reti secondarie come la Arezzo-Stia per il Casentino e la Arezzo-Fossato per la Valtiberina garantirono sul finire del XIX secolo nuovo impulso allo sviluppo commerciale – incentrato fino al secondo dopoguerra sull’asse città-campagna – e industriale della provincia, coadiuvato dal completamento della Arezzo-Sinalunga (per la Valdichiana) negli anni Venti del Novecento e dal contributo degli istituti di credito (a fine Ottocento erano presenti sul territorio una succursale della Banca d’Italia, la Banca Mutua Popolare Aretina, la Cassa di risparmio e depositi e la Banca Cortonese). Nel 1906 la Bastogi realizzò nell’area est del capoluogo di provincia l’insediamento industriale del cosiddetto Fabbricone, finalizzato alla riparazione e alla costruzione dei vagoni ferroviari (ma poi riconvertito alla fabbricazione di armi, munizioni e aerei durante il primo conflitto mondiale) e capace di impegnare circa 2.000 maestranze; al suo fianco crebbero numerose aziende preesistenti – dalla Fonderia Bastanzetti, specializzata nella fusione delle campane, alle fornaci Bisaccioni – e piccole impresi tessili (nel 1892 vi erano 16 opifici), di lavorazione della seta, laniere, meccaniche, molitorie, alimentari (industria della pasta alimentare e dietetica), calzaturiere (tra cui il calzaturificio Soldini di Capolonia), artigianali, conciarie, tipografiche, litografiche ed edilizie, fondamentali nell’agevolare il processo di inurbamento delle popolazioni rurali e nell’aggregare le attività economiche lungo le principali vie di comunicazione.

Nel Casentino lo sviluppo dell’industria del legno (legata in gran parte alla coltivazione dell’acacia), di quella tessile e delle cementerie (cresciute notevolmente tra il 1927 e il 1939) venne favorito dalla presenza di vaste foreste demaniali (poi depauperate dal secondo conflitto mondiale) e dalla presenza di numerosi corsi d’acqua; nel Valdarno un ruolo di primo piano fu giocato dalla posizione geografica, mentre nella Valtiberina ai pastifici – sviluppati assieme ai sansifici e agli oleifici anche nella Valdichiana – si aggiunse l’espansione dell’industria del metano (incentivata dalla mancanza di carburanti e combustibili). Attorno alla metà degli anni Venti si consolidò anche l’industria orafa (oggi centro del Distretto orafo più importante d’Italia, nonché uno dei più famosi al mondo), allora incentrata sulla Gori & Zucchi (nata nel 1926, poi UnoAErre): nel secondo dopoguerra – come rilevabile dagli studi di Luciana Lazzeretti e Ivo Biagianti – furono proprio le ex-maestranze della fabbrica a lanciarsi in decine di iniziative laboratoriali, spesso di successo e capaci di acquisire una centralità assoluta nell’economia aretina.

Nonostante la crisi produttiva degli anni Trenta, la mancanza di materie prime e di capitali, all’inizio degli anni Cinquanta il secondario provinciale annoverava ancora tra le sue industrie principali quelle dedite all’estrazione della lignite xiloide (già allora in calo), realtà di lungo corso come il celebre Pastificio Buitoni di Sansepolcro (che nel 1910 aveva visto sorgere una Società Cooperativa fra gli operai e i commessi e che nel 1949, attraverso l’applicazione delle disposizioni ministeriali per il piano Ina-Casa, portò alla nascita del “villaggio Buitoni”), i cappellifici Rossi e la Familiare di Montevarchi, la S.A.C.F.E.M. di Arezzo, le Cementerie del Casentino e la Vetreria Taddei di San Giovanni Valdarno. A Montevarchi svettava per importanza proprio l’industria del cappello, seconda sul piano nazionale solo ad Alessandria: una vera e propria specializzazione era stata raggiunta nella fabbricazione delle cloches, con 4/5 della produzione che nel 1951 venivano esportati all’estero. Un altro polo occupazionale di rilievo era costituito dallo stabilimento Ilva di San Giovanni Valdarno, impiantato nel 1872 per la lavorazione dei rottami di ferro e la produzione di laminati e trafilati (alla fine dell’Ottocento vi lavoravano già più di 1.000 operai): nel 1956-1957 l’impianto fu inglobato dal gruppo azionario Finsider nel gruppo industriale Iri, sotto la cui egida venne costituita la Società siderurgica Cornigliano. Nel 1958, tuttavia, una prima crisi portò alla chiusura delle acciaierie, riaperte tre anni dopo nell’ambito della fusione fra la Cornigliano e l’Ilva e la conseguente nascita dell’Italsider.

Nel 1955 era stata intanto fondata la Lebole – prima lo stabilimento di Chiassa Superiore, poi quello di Arezzo –, realtà guida nel settore del tessile e abbigliamento (nel 1962 il numero di occupati  salì di 1.500 unità, da 1.000 a 2.500, con 662 operaie su 2.362 dipendenti nel 1963). Attorno ad essa si svilupparono immediatamente molteplici attività terziste, accogliendo gran parte di quella manodopera femminile che aveva deciso di abbandonare il lavoro nei campi per ricercare un’occupazione nelle fabbriche di confezioni. Mentre il settore serico andava scomparendo a crescere era invece quello commerciale, specialmente nel campo del commercio al dettaglio e di quello all’ingrosso (cereali, tessuti, prodotti per l’agricoltura e ferrosi): il numero di disoccupati provinciale continuò comunque ad oscillare – almeno fino alla fine degli anni Cinquanta – tra le 7.000 e le 7.500 unità, senza considerare nel dato le casalinghe in cerca di lavoro e gli occupati in cerca di altra occupazione (nel 1952 vi erano 1.617 iscritti alle liste di collocamento, di cui 926 nel campo della manodopera generica).

Fu nel corso degli anni Sessanta, ad ogni modo, che la provincia di Arezzo conobbe uno sviluppo tale da collocarla tra i poli più in crescita dell’Italia centrale. Già nei primi anni Cinquanta, invero, i prodromi del cambiamento erano risultati chiaramente intuibili. Traversando la provincia nel 1953, ad esempio, Guido Piovene aveva descritto così il tramonto della filatura casalinga della lana: «la gentile usanza è finita. La produzione oggi è industrializzata ed affidata ad alcuni stabilimenti che seguono le comuni sorti dell’industria tessile. Della filatura in casa, che insieme ai carbonai del Pistoiese e alle zuppe di pancotto, aveva tanta parte nel folclore toscano, ho trovato ben pochi avanzi. Una vecchia donna, ad esempio, con un vecchio telaio, posto nell’angolo di una specie di stalla, tra la gabbia dei conigli e gli arnesi dei lavori campestri filava qualche coperta per le famiglie di contadini in cambio di generi magnerecci. In compenso ho trovato qualche artigiano che produce tappeti fatti a mano, su disegni propri o d’altri; ed in una bottega, un bambino nell’angolo che componeva quei disegni, su fogli quadrettati, con matite a colori. Figure queste che, in Toscana, sono tipiche e rievocatrici di ricordi sepolti».

L’economia aretina virò sulla strada della grande produzione, votata all’export e supportata da un continuo progresso tecnologico: tra il 1961 e il 1971 il settore orafo attraversò una nuova fase di ascesa, controbilanciando le difficoltà che negli anni Settanta assestarono un duro colpo all’industria siderurgica di San Giovanni Valdarno (che dalle 1.500 unità degli anni Cinquanta scese a quota 900, prima di passare nel 1981 alle Acciaierie di Piombino S.p.A., nel 1984 alla Deltasider e nel 1987 alla Deltavaldarno). Nel 1966 si insediò a Subbiano la fabbrica di confezioni F.lli Bianchi s.n.c., che nel 1969 avviò un nuovo opificio a Chiusi (con 230 dipendenti) e che tra il 1969 e il 1970 fu capace di raggiungere il numero considerevole di 450 dipendenti (370 operai, 49 impiegati e 31 intermedi; erano scesi però ad un totale di 374 nel 1973, dopo una prima fase di crisi); nel 1961 aveva inoltre visto la luce la Spa Zuccherificio Castiglionese (situata nell’area Sadam, oggi al centro di un complesso tentativo di rivalorizzazione), voluto con lo scopo politico e socioeconomico di supportare – in ottica elettorale democristiana – le difficoltà di coltivatori diretti e braccianti (da cui proveniva gran parte della manodopera) e capace di assorbire un totale di 2.301 lavoratori (1.767 uomini, con una media annua di 100 stabili e 200 stagionali) tra il 1962 e il 2005. Non mancarono infine esperienze cooperative di grande impatto come quella della Cooperativa La Subbianese (fondata nel 1975 dagli operai della fabbrica Bianchi per cercare di favorire il ritorno al lavoro e rilanciare la produzione), accompagnando uno sviluppo industriale – seppur importante – non sempre capace di rispondere esaustivamente alla domanda di occupazione locale e problematizzando un esodo dalle campagne che già negli anni Cinquanta aveva conosciuto importanti flussi di emigrazione – pendolare o stagionale – verso l’estero.

I termini diffusivi del sistema industriale aretino divennero sempre più evidenti nelle traiettorie dell’oreficeria, con la diffusione della lavorazione per conto terzi tra le imprese di artigiani. Sempre più spesso le realtà aziendali maggiori si trovarono a commissionare ai piccoli produttori fasi specifiche del ciclo produttivo, pagando alla consegna solo il costo della manifattura e fornendo la quantità d’oro necessaria alla fabbricazione dei semilavorati. Una fase di crisi fu attraversata dal settore tra il 1979 e i primi anni Ottanta, quando l’impennata del prezzo dell’oro e dell’argento generò una perdita di competitività delle industrie orafe italiane: le risposta imprenditoriale guardò così all’immissione sul mercato di articoli ricalibrati sulle ridotte capacità di spesa degli acquirenti, alleggerendo i prodotti attraverso l’impiego di leghe composte da metalli meno preziosi. Nel frattempo la zona iniziò a valorizzare la propria attrattiva turistica, di carattere enogastronomico e culturale: nei centri storici di Arezzo, Cortona e Sansepolcro proliferarono indicativamente attività di ristorazione e alberghiere, mentre nelle aree circostanti sorsero sempre più strutture ricettive e agriturismi.

Fu nel corso degli anni Ottanta che lo smantellamento graduale della grande industria (dalla Lebole – che avrebbe vissuto la sua ultima primavera nel 2002 – alla UnoAErre, passando per lo Zuccherificio Castiglionese, i cui battenti sarebbero stati definitivamente chiusi nel 2005) portò l’area aretina a consolidare i propri caratteri di sistema locale basato sulla diffusione della piccola e media impresa. In parallelo allo sviluppo di servizi – tra cui il polo distaccato dell’Università di Siena – e di imprese cooperative legate al terzo settore (grazie anche alla presenza nel capoluogo di tre presidi ospedalieri come l’Ospedale Civile, l’Ospedale Garbasso e l’Ospedale Pediatrico Provinciale e di strutture particolari quali l’Ais e l’Anffas per l’assistenza ai portatori di handicap), l’oreficeria seppe riconquistare una posizione importante sul mercato internazionale grazie ad un elevato grado di meccanizzazione, alla riduzione dei costi e al miglioramento del livello qualitativo del prodotto. Fu durante gli anni Novanta – in particolare – che l’elettroformatura consentì la produzione di articoli ad alto valore aggiunto, consolidando la filiera attraverso un ampliamento della gamma e una sua estensione a fette di mercato fino ad allora difficilmente raggiungibili. Contemporaneamente lo stabilimento siderurgico di San Giovanni Valdarno entrò a far parte del gruppo Ferdofin (1990), recuperando la denominazione di Ferreria del Valdarno: in seguito l’azienda sarebbe stata recuperata dalla Duferco (poi Duferdofin), prima di cedere nel 1999 parte del laminatoio alla Siderurgica Ferrero (che a sua volta l’avrebbe poi ceduto alla Afv Beltrame nel 2003) e di passare nel 2014 al gruppo Duferdofin-Nucor (con 87 addetti e una capacità produttiva di 4.000.000 pezzi all’anno).

Tra il 2010 e il 2011 la provincia mantenne intatta la propria vocazione manifatturiera, pur scontando pesantemente gli effetti della crisi del 2008-2009: indici di risalita potevano essere individuati nel settore edilizio, nelle attività ad esso connesse (finiture di edifici, impiantistica specifica, genio civile), nella pelletteria e nelle calzature (con lo sviluppo distrettuale del Valdarno superiore, oggi legato anche all’alta moda e tra i poli più dinamici del manifatturiero toscano), nella metallurgia, nei prodotti generici in metallo e non metalliferi (vetreria, ceramica, lavorazioni lapidee e prefabbricati per l’edilizia), nell’energia, nel tessile e nell’abbigliamento, nell’elettromeccanica e nella meccanica di precisione, nella chimica, nella petro-carbo-chimica, nell’alimentaristica e nella produzione di bevande (soprattutto nell’Alta Valtiberina), contrastando il calo di un’agricoltura incentrata sullo sfruttamento intensivo delle esigue aree pianeggianti. Nel 2001 il numero di addetti per unità contava una media di 17,8 nell’industria, di 14,1 nel manifatturiero e di 15,5 nei servizi; nove anni dopo gli stessi numeri erano passati rispettivamente a 14,9, 10,8 e 17,3, in linea media con la situazione regionale. Una fetta predominante di addetti, in particolare, continuava ad essere assorbita dal commercio, dal mondo delle imprese e dal libero professionismo, tracciando uno spazio economico più ampio di quello esclusivamente distrettuale.

Nel 2020 la provincia ha contato una forza lavoro pari a 157.000 unità, di cui 11.800 in cerca di occupazione e 145.200 occupati. Rispetto al 2019 la componente lavorativa si è trovata a scontare un decremento dello 0,5%, con un aumento di persone in cerca di occupazione pari allo 0,4% ed un calo di occupati dello 0,6%. Le maggiori entrate continuavano ad arrivare dai servizi di alloggio, dalla ristorazione e dai servizi turistici, da quelli alle persone (degna di nota la realtà di Terranuova Bracciolini, con poliambulatori, un centro di pronto intervento e un’attrezzata struttura ospedaliera per la riabilitazione neurologica) a quelli destinati alle altre industrie, passando per il commercio al dettaglio (dal Distretto di beni per la casa di Bibbiena a quello del tessile e abbigliamento di Sansepolcro), all’ingrosso e alla riparazione di autoveicoli e motocicli (oltre che agli altri servi servizi). Le professioni più richieste guardavano invece alla ristorazione (1.450), al personale non qualificato nei servizi di pulizia (1.230), agli addetti alle vendite (930), ai conduttori di veicoli a motore (580), agli impiegati addetti alla segreteria e agli affari generali (580) e ai tecnici dei rapporti con i mercati (560).

Nello stesso anno il tasso di occupazione ha orbitato attorno al 71,7%, in linea con il valore regionale e più alto di quasi dieci punti percentuale rispetto a quello nazionale (62,6%): la maggior parte dei contratti proposti (76,6%) è arrivato dai lavoratori dipendenti dell’impresa; tra questi  il 18,1% era a tempo indeterminato, il 47,5% a tempo determinato e l’11% sotto altre forme contrattuali. Il 23,4% dei contratti attendeva invece ad alte forme di impiego, il 16,6% in somministrazione e il 6,8% per collaboratori e altri non dipendenti. Il tutto a fronte di un tasso di inattività pari al 27,5% e di un ricorso annuale alla Cassa integrazione – ovviamente influenzato dalla emergenza pandemica – di 20.977.700 ore: nel 32,1% dei casi a gravare era una generica difficoltà di reperimento, accompagnata da un 16% di mancanza di candidati e ad un 13,2% di «preparazione inadeguata».

Nel 2021 ad Arezzo, in base all’indagine sulle forze di lavoro Istat, è stato comunque possibile rilevare un aumento occupazionale netto di circa 2.500 posti di lavoro (+1,7% e Toscana +0,1%); un debole aumento (+0,2%) rispetto al 2019, pur nel timore di nuove oscillazioni.

Federico Creatini

09/01/2023


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