Grosseto


Tra le più vaste d’Italia, la provincia di Grosseto è caratterizzata da una orografia estremamente eterogenea. Ad un’estesa pianura di origine alluvionale (che comprende la fascia costiera, la piana di Follonica, quella Grossetana e l’area tra l’Osa e l’Albegna) si contrappone il progressivo rialzo collinare dell’interno, con la punta massima del Monte Amiata.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX l’economia provinciale era basata essenzialmente sull’agricoltura: solo una minima parte ruotava attorno all’attività minerariaartigiana e ittica, con particolare riferimento – in quest’ultimo caso – alla circoscrizione della laguna di Orbetello. La piaga della malaria e le conseguenti opere di bonifica (tra il 1876 e il 1879 erano stati eseguiti lavori al diversivo dell’Ombrone, mentre nel Ventennio successivo Ferdinando di Lorena avrebbe temporaneamente risanato 300 ettari di terreni nella tenuta di Alberese) facevano da sfondo ad un settore primario di natura latifondista ed estensiva, intervallato dal frazionamento proprietario che caratterizzava la zona del Monte Amiata. La popolazione maremmana – di conseguenza – risultava rarefatta e di scarsa stabilità residenziale, specie durante i mesi estivi (tutt’oggi la provincia è la terzultima in Italia per densità di popolazione). Fino al 1896, quando fu inaugurato l’acquedotto del Monte Amiata, uno degli epicentri dello spopolamento coincideva emblematicamente con la città di Grosseto: a causa dell’insalubrità climatica gli uffici comunali venivano trasferiti per diverse settimane a Scansano (con una maggiorazione retributiva per i dipendenti), comprese le carceri giudiziarie, portando i censimenti a stimare una rimanenza cittadina di circa 400-500 abitanti nonostante la presenza in loco di importanti industrie private come le officine agrarie Cosimini (1856), Nesti e Magni (1869), Vivarelli (1891) o l’oleificio Zamberletti (1894).

Neppure la graduale colonizzazione delle terre di inizio Novecento indusse un frazionamento dei latifondi, almeno non in termini incisivi. Le campagne antimalariche del 1901 e la sostituzione del bracciantato agricolo con coloni fissi – spesso provenienti dalle province limitrofe della Toscana – corrisposero piuttosto all’istituzione di grandi unità poderali come le aziende Andreini a Poggio Cavallo (Istia), Lorena a Badiola e Alberese, Ricasoli Corsini alla Grancia, Porciatti a San Lorenzo o la Guicciardini Corsi Salviati agli Acquisti di Montepescali. Nel catasto del 1930 la proprietà restava così largamente accentrata, tanto che metà della superficie del comune di Grosseto poteva essere ricondotta a soli sette proprietari: ancora negli anni Quaranta del XX secolo poche centinaia di proprietà occupavano circa il 70% del suolo agrario, in parte appoderato; solo il 4% era animato da colture arboree specializzate.

Il popolamento della provincia si verificò con ritmi lenti, sostanzialmente limitato a Grosseto – che conobbe una prima crescita ad inizio secolo, passando dai 9.700 abitanti del 1901 agli 11.900 del 1911 – e ad altri centri minori come Castiglione della Pescaia, Paganico e Scansano: un aspetto che assunse termini analoghi anche a Massa Marittima e a Gavorrano, dove la vocazione mineraria non riuscì mai a promuovere un vero e proprio processo di industrializzazione territoriale. Nella prima metà del XX secolo, pertanto, l’evoluzione economico-occupazionale conobbe progressi altalenanti dal punto di vista qualitativo. L’agricoltura continuava a guardare all’attività cerealicola (le colture più importanti concernevano il grano, l’avena, l’orzo, il granturco, la barbabietola, il tabacco, le favette, le patate, i legumi, i carciofi, i cavoli, i pomodori, i foraggi, l’uva, le olive e le castagne) e zootecnica, con allevamenti di carattere brado e semibrado: il solo bestiame bovino passò dai 23.950 capi del 1883 ai 59.755 del 1950 (quello ovino dai 193.000 ai 284.000, mentre quello suino dai 5.8000 ai 40.000), controbilanciando un mantenimento stazionario di quello equino. La produzione di olio d’oliva diventava sempre più importante, con più di due milioni di piante messe a dimora tra il 1900 e il 1950; nell’area di Tirli continuavano invece a giungere flussi di lavoratori stagionali per la lavorazione di ciocchi di scopa, finalizzata alla fabbricazione delle pipe.

Tra 1820 e 1940 le aziende mezzadrili salirono da meno di 800 a circa 5.500, con l’istituzione di nuovi centri aziendali (tra cui Aratrice e Banditaccia) e l’ampliamento di altri già esistenti (Acquisti, Poggio Cavallo, Grancia, Monte Lattaia, Collecchio, Pianetti di Sotto-Sant’Antonio, Pian d’Alma, Poggione, Commendone, Trappola, Badiola, Castellaccia e Il Deposito), soprattutto nelle pianure costiere. Ad Alberese l’Opera nazionale combattenti (1926-1940) completò i lavori avviati dal genio civile e costruì strade, canali e l’acquedotto Grancia-Alberese, intensificando l’appoderamento – nel 1929 la provincia contava 10.501 piccoli proprietari – e affidando i terreni ai salariati (150 famiglie) e ai nuclei di migranti veneti diretti verso le aree di bonifica (103 nel 1939). Lo scoppio della guerra portò però alla sospensione dei finanziamenti disposti per i lavori di bonifica, con grandi cifre già stanziate e investite (74.500.000 per argini fiumi e canali; 49.000.0000 per l’acquedotto del Fiora e le bonifiche dell’Albanese e del Talamone; 58.225.356 per la bonifica grossetana; 23.000.000 per la sistemazione del fiume Bruna; 19.000.000 per l’Osa-Albegna) che finirono in buona parte ad aziende agricole private quali la Società Anonima Capalbio Redenta Agricola (proprietaria di un’azienda sul fiume Chiarone) e la Società Anonima Aziende Agricole Maremmane (proprietaria delle tenute di San Donato e della Doganella).

La politica agraria fascista ebbe conseguenze deleterie sull’agricoltura, dalla crisi della transumanza alla riduzione delle rendite, fino al persistere di una scarsissima meccanizzazione agricola. Nel secondo dopoguerra la maggior parte del lavoro di aratura veniva ancora affidato ai buoi maremmani, denotando la mancanza di mezzi capaci di rispondere in modo adeguato alle trasformazioni in corso: al 1953 era possibile registrare un solo trattore ogni 436 ettari di seminativo, a differenza del rapporto 1 a 33 che vigeva nell’Italia Settentrionale. Un impulso migliorativo arrivò in tal senso dall’Ente Maremma (istituito con l. n. 841del 1950), che negli anni Cinquanta conferì – almeno per il trentennio successivo – un vero e proprio slancio produttivo alla provincia attraverso opere di dissodamentopiccole bonifiche idrauliche, la costruzione di villaggi bracciantili (come quello di Rispescia) ed il rilancio di borghi rurali quali Polverosa, Sgrillozzo, Madonnino e Pomonte. Realtà destinate a dar vita a consorzi agrari e ad un sistema cooperativo fortemente diffuso, tanto nel campo vinicolo quanto nei settori oleario (come nell’area della Marsiliana o di Montiano) e caseario (emblematico l’esempio del Caseificio Sociale di Manciano, fondato nel 1961 da 21 soci).

Al 30 settembre 1954 erano stati distribuiti nella Maremma tosco-laziale 123.991 ettari a 15.496 famiglie contadine, per un totale di 6.582 poderi (4.669 in Toscana) e 8.914 quote integrative: i primi – unità produttive autonome a conduzione familiare, con i massimi fissati a 14 ettari in pianura ed a 16 ettari in collina – si assestarono attorno al 60%; le seconde sul 40%, tradotte in appezzamenti di circa 3,5 ettari funzionali al consolidamento delle piccole proprietà agrarie o all’integrazione del lavoro salariato. Anche per questo motivo il numero di disoccupati agricoli continuava a non superare il 6-7% della forza effettiva, nonostante l’accentuarsi del problema all’interno di quelle circoscrizioni di montagna (come Arcidosso, Castel del Piano, Castell’Azzara e Pitigliano) in cui i piccoli proprietari – impossibilitati a contare sul loro terreno per l’interno anno – erano spesso costretti ad arrotondare il loro bilancio con prestazioni presso terzi. Contemporaneamente andavano sviluppandosi i centri turistici di Castiglione della Pescaia e di Marina di Grosseto, che negli anni Venti accrebbero la propria attrattiva grazie alla costruzione di villette e colonie destinate ad estendersi fino al Monte Argentario.

Nel primo lustro degli anni Cinquanta il 60% della popolazione era ancora occupato nel settore primario: solo il 18% operava nell’industria, nonostante la presenza di uno dei distretti minerari più importanti d’Italia che allora impiegava 8.405 lavoratori tra Gavorrano e l’Argentario. A distinguersi in egual misura era l’industria edile, che nella provincia occupava il secondo posto per importanza di capitali impiegati e di addetti: il numero di lavoratori con rapporto fisso nelle varie aziende edili-stradali si aggirava attorno alle 380 unità, toccando una media di 1.600 tra maggio e ottobre (la disoccupazione settoriale tornava poi a riacutizzarsi durante la stagione invernale). L’industria chimica dava lavoro a 432 maestranze nel complesso provinciale: i perni erano costituiti dalla Montecatini e dalla Nobel SGEM di Orbetello, impegnate nella produzione di concimi chimici e di polveri chimiche. A Castel del Piano vigeva invece l’industria degli estratti tannici, circondata da alcune piccole attività dolciarie e alimentari: uno spazio minore era occupato dall’industria del carbone vegetale (alimentata dalla vasta superficie boschiva) e da altre realtà aziendali a carattere stagionale che, per un media di sei mesi all’anno, assorbivano circa 2.180 lavoratori. Un quantità non secondaria trovava impiego nell’industria alimentare, contraddistinta da una valida attrezzatura molitoria e da aziende di pastificazione e conserviere; un impatto minore era esercitato infine dalle industrie del legno e del sughero, oltre a quelle siderurgiche (legate alla produzione di carbone) e metallurgiche, sebbene indebolite dalla crisi e dall’allora prossima chiusura (nel 1960, a fronte dell’ascesa di Piombino) delle Fonderie Ilva di Follonica (la cui avanguardia aveva segnato sul finire del XIX secolo la fine dei vicini forni di Valpiana, frazione di Massa Marittima). Attorno ad esse aveva orbitato per quasi un secolo un indotto occupazionale di grande importanza: le bonifiche idrauliche otto-novecentesche avevano attratto infatti moltissimi lavoratori stagionali dall’Appennino Tosco-Emiliano, in particolare dalla montagna pistoiese. Tra questi furono soprattutto i carbonai a rendere Follonica una autentica succursale di Pistoia in pianura: tra l’autunno e la primavera arrivavano per carbonizzare la legna tagliata nei boschi maremmani e rifornire di combustibile lo stabilimento, sfruttando i muli per trasferire il carbone nei punti di raccolta (i cosiddetti imposti). Non pochi scelsero di stabilizzarsi in zona, entrando a lavorare direttamente nello stabilimento nella prima metà del XX secolo; con loro altri uomini provenienti dall’entroterra, in particolare da Massa Marittima e da Gavorrano.

Al netto di un’incidenza ancora marginale, nel lungo dopoguerra la provincia poteva quindi contare sulla presenza di una grande industria (mineraria, con estrazione di pirite di ferro, lignite e mercurio; chimica, con la produzione di superfosfati per l’agricoltura e di esplosivi; metalmeccanica, con fonderie per lingottiere, cilindri da laminatoi, oggetti in ghisa e in altri metalli), di una media industria (mineraria, con estrazione di sabbie quarzose per fonderie e vetrerie, terre refrattarie per fonderie, regolo di antimonio e ossido bianco, caolino grezzo e raffinato per l’industria della ceramica, della carta e della gomma; boschiva, con produzione di carbone vegetale e legna, travi e traverse per le ferrovie; edile ed estrattiva, con fabbriche di laterizi, produzione di gessi cotti e crudi, cave di pietrisco e pietra calcarea; alimentare, con conservifici di pesce e vegetali, farine e paste alimentari; cartaria, abbinata al commercio di paglia e cartone) e di una piccola industria (metalmeccanica, con officine di riparazioni per macchinari agricoli e industriali, impianti idraulici, igienici e sanitari; mobilifici; camicerie per uomo; vetrerie; lanifici; produzione di ghiaccio e acque gassate; manufatti in cemento). Nel dettaglio la componente operaia impegnata nelle miniere e nelle cave passò dalle 4.860 unità del 1945 alle 8.047 del 1951, quella chimica dalle 228 alle 675, quella meccanica e siderurgica dalle 320 alle 360 e quella delle piccole industrie da 569 a 850; viceversa decrebbero il settore manifatturiero (da 3.750 addetti a 3.330), elettrico (da 54 a 30) e quello alimentare (da 160 a 135).

Restava poco sviluppato l’indotto legato all’artigianato, limitato ad attività marginali dell’industria e dell’agricoltura ma comunque in grado di sopperire ai bisogni del mercato propri dei piccoli centri. Allo stesso modo la struttura commerciale verteva per massima parte sull’agricoltura e sui prodotti boschivi: di numero esiguo (eppure destinato ad aumentare a ridosso degli anni Sessanta), il 70% delle aziende commerciali era impegnata nella vendita di macchine, attrezzi e concimi (sovente messi a noleggio dalle strutture cooperative). Nel 1953 ammontavano a 1.137 le ditte provinciali che esercitavano il commercio al minuto, a fronte delle 686 attive nei trasporti. Nello stesso anno la popolazione attiva tra le pendici del Monte Amiata, il capoluogo e la zona mineraria (oltre il 50% della popolazione totale) risultava occupata per il 3,75% nei trasporti e nelle comunicazioni, per il 3,4% nella pesca, per il 4,50% nel commercio e nel credito, per lo 0,9% nelle libere professioni, per l’1,76% nelle pubbliche amministrazioni e per il 7,69% in quelle che nell’Inchiesta parlamentare sulla disoccupazione venivano definite dall’allora prefetto Giulio Russo «professioni non specificate».

Nel corso del ventennio successivo il litorale consolidò sempre più la propria posizione di perno terziarioindustriale ed edilizio della provincia, potenziando l’attrattiva turistica (rurale e balneare) per la stagione estiva e promuovendo nuove forme di sviluppo agricolo: la costituzione di oasi e riserve naturali protette come la Diaccia Botrona di Castiglione, la foce dell’Ombrone o la riserva della Feniglia contribuirono a rendere la Maremma una realtà attrattiva per gli amanti della natura selvaggia e incontaminata, dando inizio anche a fiere e ricorrenze – ancora oggi popolari e arricchite dalle specialità enogastronomiche del territorio – volte ad esaltare figure tipiche della tradizione come quella del buttero (il pastore a cavallo tipico dalla Maremma tosco-laziale). Gravate dalla crisi della mezzadria e dell’indotto minerario, nel frattempo, anche le zone collinari e amiatine conobbero un aumento dei flussi turistici invernali (o termali, come nel caso di Saturnia): negli anni Sessanta la provincia fu per di più coinvolta nell’espansione dell’allora Cooperativa La Proletaria, tra l’incorporazione dell’Alleanza Grossetana Cooperative di Consumo (di cui furono rilevati 12 punti vendita sui 39 totali) e l’apertura  verso il Lazio.

Il settore terziario e le evoluzioni del mondo agricolo hanno rappresentato il fulcro dello sviluppo provinciale dell’ultimo quarantennio, agevolate dalla promozione culturale e ambientale avanzata dalle varie realtà provinciali (basti pensare esemplificativamente al lavoro di Pitigliano o del comune di Capalbio, all’interno del quale si trova anche il noto Giardino dei Tarocchi creato da Niki de Saint Phalle). Ad inizio anni Novanta l’80% del valore aggiunto ai prezzi allora correnti scaturiva significativamente dal commercio e dai servizi, trainati da un settore agricolo il cui indice di specializzazione era stimato – all’alba del nuovo millennio – di tre volte e mezzo superiore rispetto a quello medio toscano (significativa il tal senso la crescita delle aree interne, in particolare quelle delle Colline Metallifere e dell’Albegna). Nel 2003 lo stesso campo dei servizi era arrivato a generare il 71,5% dei posti di lavoro (27,4 % nel commercio e nei pubblici esercizi; il 17,40% nei servizi privati; il 26,7% nella pubblica amministrazione, nell’istruzione, nella sanità e negli altri servizi, con un -3% rispetto al 1998 ma 3.288 posti di lavori in più tra il 1991 e il 2001), con l’agricoltura, la silvicoltura e la pesca al 10,60%. La decrescita più significativa toccava il settore industriale (1,40% del totale nel settore moda, con 700 posti di lavoro persi in un decennio; 1,40% in quello meccanico, con l’intero comparto manifatturiero passato dal 13,6% del totale nel 1998 al 12,4% del 2003), con la sola eccezione del ramo edilizio (8,20%, con 858 posti di lavoro in più).

Un aumento occupazionale era stato fatto registrare dai settori connessi alle attività immobiliari, all’informatica, alla ricerca e al noleggio (65,1% del totale, per un +49,1% dettato nello stesso arco di tempo dallo sviluppo dei contoterzisti) e dalle imprese extra agricole (+2,4% tra il 1991 e il 2001, a fronte del + 4,7 regionale). Nel campo della fabbricazione di prodotti chimici erano stati invece persi più di 500 posti, riflesso della crisi di un polo, quello di Scarlino, che ancora oggi resta al centro del dibattito industriale della provincia (tra gli stabilimenti presenti figurano la Nuova Solmine, ex Eni, per la produzione di acido solforico e la Huntsman Tioxide per la sintesi del biossido di titanio). Già nel corso degli anni Settanta e Ottanta la zona aveva dato luogo a proteste di carattere ambientale, parzialmente attutite dall’installazione (nel 1996) del Cogeneratore per il recupero energetico dai rifiuti industriali. Un tentativo di rilancio oltretutto era già stato avanzato dall’agenzia Grosseto Sviluppo, finalizzando – nell’ambito dell’attività convenzionata con il ministero del Lavoro (legge n.236/93) – la realizzazione di tre incubatori di imprese nella stessa Scarlino (in località La Botte, con realtà legate alla nautica e al porto del Puntone), a Grosseto (con un’attenzione specifica ai servizi e al campo grafico, informatico e del marketing) e a Massa Marittima (rivolto a piccole imprese artigiane collegate al marchio Arti e Mestieri di Maremma, realizzato proprio da Grosseto Sviluppo).

Dopo la grande crisi del 2008, il mercato occupazionale della provincia è tornato a muoversi nel 2012 (con una stima di circa 2.000 occupati in più rispetto al biennio 2010-2011). Il trend risultava comunque influenzato dal progressivo innalzamento dell’età pensionabile (documentato dall’aumento dei lavoratori tra i 55 e i 64 anni) e dalla protezione dei posti di lavoro garantita dalla Cassa integrazione e dagli altri ammortizzatori sociali: nel corso delle stesso anno il tasso di disoccupazione era arrivato infatti ad assestarsi sul 7,6%, fiancheggiando un significativo incremento degli attivi in cerca di lavoro. Il rialzo del lavoro dipendente (+1,3%) – al contempo – poteva essere ricondotto all’aumento dei contratti a tempo determinato (63,4% del totale), con un incremento concentrato in termini assoluti soprattutto nel campo alberghiero e della ristorazione (dal +5% al +12,2%, il 27,5% degli avviamenti, con un aumento di 1.482 posizioni), nel commercio (+2%) e in altri lavori non riconducibili a settori specifici (+8,2%). Cifre e percentuali controbilanciate dal calo di 532 unità nel settore delle costruzioni (-18,1%), di 192 addetti nel manifatturiero (-7,7%) e di 135 nei servizi alle imprese (-2,8%), riflettendo la parabola di un’industria già in flessione e in difficoltà nel riprendersi pienamente dallo crisi del 2008 (-6,8% nel 2009).

Le unità imprenditoriali hanno continuato a diminuire nel decennio successivo, passando da 355 a 177 unità. Flessioni che hanno coinvolto il mondo agricolo (con la crisi di importanti fusioni cooperative come quelle che avevano dato vita ad Agrimaremma e a Terre di Maremma ed il successivo assorbimento in realtà di carattere regionale quali Terre dell’Etruria, che ha potenziato il mercato dell’ortofrutta rilanciando centrali di distribuzione e imballaggio come quella di Braccagni), commerciale ed edilizio, evidenziando l’impatto trasversale della pandemia. Il 2020 della provincia di Grosseto si è infatti chiuso con un calo del 4,9% del valore aggiunto, nonostante quest’ultimo dato possa essere considerato uno dei migliori a livello regionale: l’Ires Toscano ha evidenziato come da questo punto di vista abbia quasi sicuramente giocato un ruolo chiave la scarsa integrazione della struttura produttiva locale con i mercati internazionali, garantendo un parziale isolamento della provincia rispetto all’esposizione del blocco economico.

Dal punto di vista occupazionale, le prospettive di un rilancio dell’export agroalimentare (con alcune eccellenze nell’area di Braccagni, quali il Collegio Toscano degli Olivicoltori OL.MA, o prodotti di riconosciuta qualità come il Ciliegiolo, l’Ansonica e il Morellino di Scansano), l’allevamento ittico e la vocazione terziaria del territorio hanno generato una tenuta complessiva dell’asse socioeconomico della provincia. Certo il lavoro a termine – emblema della centralità provinciale dei servizi commerciali e turistici – ha continuato a diminuire molto meno rapidamente che in Toscana (-6,8% rispetto al -22,7%), a differenza di quello a tempo indeterminato (-22,7%) e dei tirocini (-37,6%). Nel luglio 2021, ad ogni modo, il livello cumulato degli avviamenti è stato l’unico sul piano regionale ad essere tornato nuovamente sui livelli pre-crisi (+0,7%), grazie anche alla forte spinta conferita dalla Blue Economy (8,3% delle imprese complessivamente operanti in provincia) alla crescita turistica della costa. Follonica, Castiglione della Pescaia, Capalbio, Marina di Grosseto e l’Argentario – al pari dell’Isola del Giglio – continuano infatti ad esercitare una forte attrattiva sia all’interno che all’esterno della regione, presentando un’offerta in grado di accogliere diverse capacità di spesa.

Federico Creatini

09/01/2023


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