Collocata nella Toscana occidentale, la provincia di Pisa conta una proiezione sul mare ridotta rispetto alla sua estensione complessiva. Alle spalle del litorale si dispiegano vaste superfici pianeggianti (la pianura costiera, il Valdarno Inferiore e la bassa Val d’Era), all’interno delle quali il monte Pisano rappresenta l’unico elemento eterogeneo sotto il profilo geomorfologico. Fino al 1925 i suoi territori comprendevano anche i centri di Bibbona, Campiglia Marittima, Castagneto Carducci, Cecina, Collesalvetti, Piombino, Rosignano Marittimo, Sassetta, Suvereto, l’Isola del Giglio e Giannutri, poi passati alla provincia di Livorno e – le due isole – a quella di Grosseto.
Nella seconda metà del XIX secolo le colline dell’Alta e Media Val di Cecina e del Volterrano erano le meno popolate del comprensorio. I loro terreni argillosi mal si prestavano alla coltivazione agricola, gravati dalla sterilità causata dai depositi salini presenti nel sottosuolo (a Castelnuovo e a Pomarance solo un quarto della superficie era destinato a coltura, riflettendo in media il 28% delle colline situate tra l’Era e il Fine). Ad ingessare la situazione contribuiva inoltre la struttura della proprietà fondiaria, ancorata ai retaggi dei grandi possedimenti ecclesiastici e dei nobili fiorentini: da ciò non differivano neppure le colline litoranee del medio Cecina e le zone di Guardistallo e Montescudaio, anch’esse segnate da una bassa densità abitativa. Diverse si presentavano le realtà di Riparbella e Castellina, dove nella prima metà dell’Ottocento le bonifiche costiere e l’estensione delle terre a coltura avevano portato a raddoppiare il numero di abitanti. Le strutture della Media e Bassa Valdera e del Monte Pisano risultavano viceversa più articolate. A Vecchiano, Ponsacco e Calcinaia un solo proprietario poteva arrivare a possedere da un terzo alla quasi totalità delle terre, controbilanciando la presenza di una miriade di piccolissimi proprietari (presenti anche nella piana di Pisa, in particolare nel Cascinese): molto spesso questi ultimi lavoravano come mezzadri, esercitando mestieri che spaziavano dall’agricoltura ai trasporti, passando per la manifattura a domicilio. L’area più coltivata coincideva infine con la pianura dell’Arno, da Castelfranco di Sotto al mare, dove risiedeva l’81% della popolazione provinciale.
La superficie agraria e forestale destinata a seminativo era del 44%, condotta a mezzadria con il 60% dei seminativi arborati: a predominare erano castagni e aree boschive, esclusa la pineta costiera di S.Rossore-Tombolo. Nella seconda metà dell’Ottocento le bonifiche nel padule di Bientina indussero un aumento demografico del fondovalle e della pianura, pur senza risolvere pienamente il problema idrico: fu così nel 1907 che i possessori di una parte dei terreni da bonificare decisero di riunirsi in consorzio, provvedendo all’istallazione di idrovore che anticiparono gli investimenti che si sarebbero susseguiti tra il 1915 e il 1930. Al momento dell’Unità, pertanto, lo stato dell’agricoltura provinciale si presentava eterogeneo, condizionato dalla presenza o dall’assenza delle vie di comunicazione: le realtà di collina delle medie e alte valli degli affluenti dell’Arno e della Val di Cecina avevano indirizzato il proprio operato verso l’esportazione del vino e dell’olio sul mercato italiano, mentre la pianura e le zone più vicine alla città di Pisa e alla ferrovie restavano concentrate sull’allevamento del bestiame – destinato ai mercati dell’Italia settentrionale e dei paesi d’Oltralpe – e sulle produzioni specializzate di tipo orticolo e cerealicolo.
La diffusione delle famiglie mezzadrili corrispondeva ai diversi livelli di estensione terriera, accostando alle attività agricole primarie l’allevamento del bestiame e la lavorazione dell’uva e delle olive, oltre ai rapporti con il mercato per la vendita dei prodotti di parte colonica e la gestione delle stalle. Tra le aree più produttive emergeva la valle dell’Arno, dove già prima del 1861 l’agricoltura aveva compiuto enormi progressi grazie alla vicinanza dei centri di consumo e alle numerose vie di comunicazione. La crescita dell’allevamento bovino da carne, da latte e da lavoro aveva alimentato uno stretto collegamento con i mercati urbani (a Pugnano furono installate anche le prime cascine): nella zona di San Giuliano aveva trovato spazio persino la coltivazione dei bachi da seta, componente minore di un quadro complessivo destinato – tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo – a veder crescere in modo importante le aree di pianura; sintomatico il rilievo assunto dalle coltivazioni di tabacco, innestate nel 1908 a Cascina, Pontedera, Capannoli e Forcoli.
A mostrarsi dinamico era anche il settore secondario, il cui epicentro poteva essere individuato nel Valdarno. Nei borghi e nei centri abitati la manifattura aveva già proliferato, accogliendo nuclei di braccianti, pigionali e operanti aperti a qualsiasi tipo di lavoro: nel 1908 la lavorazione dei corbelli a Buti occupava ancora 1.300 persone, confermando una tradizione di lungo corso. Tali forme proto-industriali svoltarono però rapidamente verso un’industria moderna, coadiuvati dalla nascita di nuove realtà – come la geotermia di Lardello, da dove veniva esportato anche acido greggio – e dall’incremento dell’industria estrattiva tradizionale (come a Monterufoli, tra la Val di Cecina e la Val di Cornia). La percentuale di lavoratori a domicilio, già molto alta sul finire dell’Ottocento, moltiplicò con l’arrivo in provincia della grande fabbrica; e furono in molti ad abbandonare la terra per spostarsi nelle manifatture, integrando – come nel caso dei piccoli proprietari e dei coloni – la rendita agricola con il salario. Lo sviluppo industriale si registrò attorno a settori trainanti come il tessile (nel 1862 esistevano già in provincia 52 opifici per la tessitura del cotone, 23 dei quali a Pontedera, per un totale di circa 6.500 unità impiegate), l’industria estrattiva, quella delle terraglie e del vetro, supportate da una serie di industrie minori che continuarono a crescere lungo il XX secolo: dall’alimentare e dalla trasformazione dei prodotti agricoli alla lavorazione del mobile a Cascina, passando per quella dell’alabastro a Volterra, dalla concia delle pelli a Santa Croce sull’Arno, dalle terraglie a S. Giovanni della Vena e dai laterizi nella bassa valle dell’Arno.
L’arrivo a Pisa di imprenditori ebrei come i Nissim e i Pontecorvo – che alla vigilia della prima guerra occupavano nei loro stabilimenti 2.420 maestranze, rispetto alle 782 del 1892-189 – garantì il radicamento di una industria tessile più avanzata, con telai meccanici ed un aumento dei tassi di qualità e produzione. Le oscillazioni del mercato e le conseguenti altalene occupazionali non scalfirono la tenuta cittadina neppure ad inizio Novecento, quando l’incremento della domanda sollecitò una nuova ascesa del lavoro a domicilio (riflesso di una produzione fortemente decentrata) nelle zone di Cascina e Pontedera: tra il 1900 e il 1914 – come ricostruito da Giuliana Biagioli – la forza occupazionale del tessile fece registrare un +12%, puntando su solide strutture come la Manifattura Dini di Pontedera. Crebbe anche il numero di addetti all’attività estrattiva (dal sale fontinale delle Moje di Volterra al rame di Montecatini Val di Cecina, dove nei primi anni del XX secolo venne chiusa la miniera di Caporciano), secondo solo a quelli del cotone. A fianco di realtà già affermate come le fornaci da stoviglie e la vetreria Marconi, dopo il 1887 vennero installate a Pisa anche la Società Ceramica Richard (che assorbì la maggiore fabbrica di terraglie per stoviglie di Pisa, la quale occupava 200 dei 340 addetti allora attivi nel ramo; una manodopera semi-qualificata e poco costosa, di provenienza artigiana e contadina) e la Saint Gobain, quest’ultima destinata divenire uno dei pilastri occupazionali della provincia. A Cascina e a Ponsacco la specializzazione nel settore del mobile risultava ormai consolidata, pur ancora basata su piccoli laboratori artigianali; Santa Croce aveva assunto invece la dimensione di grande centro conciario, mentre Buti e Calci vertevano sulla diffusa presenza di edifici molitori e di frantoi. L’estrazione e la lavorazione dell’acido borico dai bacini boraciferi avevano a loro volta rivoluzionato l’economia di Lardello e di Pomarance, portando l’industria chimica locale a raggiungere una fama internazionale grazie anche all’opera del principe Piero Ginori Conti (che vi promosse la trasformazione dell’energia termodinamica in energia elettrica). Nel 1883, stando ai dati raccolti da Tommaso Fanfani, la provincia di Pisa – compresi i territori poi passati a Livorno e Grosseto – contava così 1.065 addetti nelle cave e nelle miniere, 3.435 tra fornaci e vetrerie, 592 nelle produzioni chimiche, 800 nella lavorazione dell’alabastro, 739 in quella del legno, 609 nelle concerie, 2.710 nel settore alimentare, 5.269 nel tessile, 228 nell’abbigliamento, 314 nella siderurgia meccanica ed elettromeccanica e 173 in altre attività, tra cui le tipografie (131 addetti).
L’intreccio tra gli ultimi scampoli del sistema proto-industriale e l’industrializzazione contribuì a mantenere – grazie ad un florido tessuto commerciale (si pensi all’importanza di mercati come quelli di Bientina, Fauglia, Lari, Orciano, Peccioli, Pisa, Pontedera e Volterra) – la componente mezzadrile sul territorio (condizione invero comune a gran parte della regione) ed a rendere quella pisana una delle realtà più sviluppate della Toscana. Nel 1911 nei comuni di Pisa, Cascina, Pontedera e Piombino si concentravano il 40% degli esercizi censiti e il 66% degli addetti: allo stesso tempo era il comune di Pisa a confermarsi come il centro industriale più rilevante della circoscrizione, con il 21,65% delle unità produttive e il 33% degli impiegati. A fianco di imprese industriali di grandi dimensioni persisteva un’industria diffusa di piccole dimensioni che abbassava notevolmente il numero medio di addetti per unità produttiva: delle 644 imprese censite (per un totale di 9.463 occupati) solo il 13% (85) superava i dieci addetti, oltre al proprietario o al dirigente. L’industria leggera continuava a risultare la più sviluppata, specialmente nel tessile, nella lavorazione di minerali non metallici e dell’edilizia e nella trasformazione dei prodotti derivati dall’agricoltura, dalla caccia e dalla pesca. Con 2.918 addetti, i cotonifici riunivano quasi il 31% degli occupati industriali del capoluogo (e il 21% di quelli provinciali); al 24% si trovavano i lavoratori dell’industria della lavorazione dei minerali non metallici, comprese le maestranze delle vetrerie e quelle impegnate nella produzione di ceramiche e di terraglie.
Le industrie più ricche di potenzialità, come le meccaniche e le metallurgiche, presentavano quote di addetti ancora ridotte: all’interno delle prime lavorava il 14,2% degli addetti all’industria del comune di Pisa (il 19,7% della provincia, su cui incideva la presenza di Piombino), mentre le altre oscillavano tra l’1,2% di Pisa ed il 3,5% della provincia (importante il ruolo del Volterrano). Le industrie finalizzate alla distribuzione delle risorse energetiche contavano invece il 3,2% degli addetti a Pisa e il 2,3% del resto della provincia. Diverso si presentava il quadro di Cascina e Pontedera: nel primo caso a prevalere erano le industrie di trasformazione dei prodotti agricoli, con il 40% degli addetti dell’industria; seguivano con il 30% degli occupati le lavorazioni di minerali non ferrosi e l’edilizia, accompagnate dai tessili (24,4%) e da un significativo numero di lavoratori a domicilio (espresso anche dal basso rapporto tra addetti e forza motrice) che basava ancora il lavoro sui telai a mano. La percentuale di lavoratori tessili saliva al 54% nella realtà di Pontedera, dove attorno alla Manifattura Toscana Dini e C. (poi Manifatture Toscane Riunite) sorgevano numerosi cotonifici e uno jutificio di rilievo: al 21% degli occupati industriali si trovavano gli addetti alla trasformazione dei prodotti agricoli, distribuiti su di un tessuto di imprese di piccole e medie dimensioni. Volterra vedeva una prevalenza di produzioni chimiche legate ai soffioni boraciferi, Calci di quelle connesse ai prodotti locali (sfruttando anche i corsi d’acqua presenti, come nel caso dei frantoi e dei mulini): a San Giuliano infine era stato installato uno stabilimento della Pontecorvo, mentre nella vicina Vicopisano le aziende estrattive di piccole e medie dimensioni affiancavano la lavorazione dei laterizi.
Con il delinearsi di un sistema industriale eterogeneo, fu la guerra ad accentuare il peso del secondario nell’economia provinciale. Le commesse indussero un incremento della produzione per le industrie di cuoio e pelle (nel 1915 la produzione locale venne triplicata, anche grazie alla spinta dei commercianti e dei committenti che operavano nel Valdarno inferiore), le Officine Toscane (motori), la Gallinari (idrovolanti) e la Oneto (parti di aerei): nel 1917 quest’ultima venne rilevata dalla Piaggio, che confermò il suo interesse verso l’aeronautica anche una volta terminato il conflitto.
Negli anni del regime, dopo il contrasto al trasferimento di proprietà (ulteriormente limitati nel 1927) e le modifiche ai rapporti di produzione disposti dalla reazione fascista, le misure protezionistiche conferirono nuovo slancio alla produzione di frumento: le opere di bonifica e di sistemazione idrica potenziarono i collegamenti tra il porto di Livorno e la zona industriale pisana (agevolati da costi di trasporto moderati), assorbendo molta manodopera – soprattutto bracciantile; allo stesso tempo l’Opera Nazionale Combattenti reclutò coloni e braccianti per la conduzione delle tenute, coadiuvando l’incremento occupazionale dettato dal terziario e dalle assunzioni nell’apparato amministrativo statale e locale, nelle strutture sanitarie (connesse al complesso ospedaliero Santa Chiara di Pisa), nell’Università e nel campo militare. Il quadro di crescita venne confermato dal censimento industriale e commerciale del 1927. Il numero di occupati nell’industria – nonostante il passaggio di Piombino alla provincia di Livorno – era salito a 40.980 (+23% rispetto ai 33.306 del 1911), ripartiti in 9.251 unità (+211% rispetto al 1911): il tessile restava il primo per numero di addetti, seguito dalla lavorazione dei minerali non metallici, dalla produzione di abbigliamento e dalla lavorazione del legno (quattro rami che costituivano il 49% dell’occupazione industriale). L’edilizia, il lavoro nelle cave, nelle miniere, nell’industria meccanica (dove solo l’1,07% della manodopera era composta da donne) e in quella alimentare assorbivano a loto volta il 28% della forza lavoro, tra attività specifiche come lo sfruttamento delle risorse naturali (diffuso a Santa Luce, Volterra, Vecchiano, Castellina Marittima, Vicopisano e Pomarance) e la lavorazione di prodotti agricoli (olive e pinoli, tra gli altri): in ascesa risultavano anche gli occupati nei trasporti, nelle telecomunicazioni e nelle costruzioni, al pari di quelli attivi in campo chimico (tramite la progressiva affermazione della produzione di medicinali e l’installazione, nel 1924, del Colorificio Toscano nel viale delle Cascine di Pisa) e meccanico (1.627 addetti nella sola Pisa, il 56,36% del totale; 315 invece a Pontedera, complice l’aumento di piccole officine per la riparazione e la manutenzione di autoveicoli e macchinari). Gli addetti al commercio e alle altre attività del terziario erano infine 13.525, il 34,05% dei quali faceva riferimento ad attività al minuto o a botteghe alimentari: il 14,9% era impegnato in locali pubblici e alberghi (dove il 69% era composto da proprietari o conduttori), seguito dal 10,41% attivo nel commercio al minuto di prodotti tessili, dalla bassa percentuali di attivi nel campo del credito, delle assicurazioni (4,2%) e degli oggetti d’arte e di lusso (2,43%), dalla diffusione del commercio all’ingrosso di bestiame e mezzi agricoli (33% di operai e 61% circa da proprietari), del commercio al minuto di metalli (2,44%) e dalla relativamente alta – se rapportata al contesto regionale e a quello nazionale – quota di commercianti di medicinali e di prodotti chimici (con picchi nel comune di San Miniato, dove era molto diffusa la conceria).
Lo sfondo di questo quadro concentrava la quota principale di attività nei cinque principali centri urbani (Pisa, Pontedera, Cascina, Volterra e San Giuliano, con il 64,4% di tutti gli addetti all’industria) e continuava a trovare nell’agricoltura l’attività prevalente. La diffusione delle attività artigianali – espresse dall’alto numero di operai concentrati in attività che oscillavano tra uno e cinque addetti – affiancava quelle dello spettacolo, con l’1,77% di addetti e picchi medi più alti a Pontedera, Cascina e a Pisa, dove dal 1932 la famiglia Agnelli iniziò ad investire negli studi di Tirrenia per promuovervi l’industria cinematografica. L’occupazione femminile si manteneva più consistente nelle attività commerciali (32,68%, contro il 22,92% dell’industria), giacché la percentuale di proprietarie e conduttrici rappresentava l’81% della quota di addetti al commercio minuto di alimentari, filati, tessuto e abbigliamento: il numero di donne restava alto anche nel settore manifatturiero e nel sommerso del lavoro a domicilio, riducendosi però nel campo delle forniture energetiche e dell’edilizia, dove la media complessiva della provincia risultava comunque più alta di quella regionale.
Durante il Ventennio crebbero le produzioni aeronautiche, trainate dagli stabilimenti Piaggio di Pisa e Pontedera e dalle Costruzioni meccaniche aeronautiche di Marina di Pisa. Il settore quadruplicò il numero dei suoi addetti, compensando la crisi che “quota 90” aprì nel tessile e laniero: nel 1937 al riguardo il cotonificio Pontecorvo fu rilevato dalla Manifattura Lane Gaetano Marzotto & Figli, che vi impiantò un moderno lanificio per cardati. Parallelamente procedette l’ammodernamento degli impianti Saint Gobain, garantendo un aumento di produttività ed una graduale stabilizzazione della manodopera sullo sfondo di programmi di consolidamento e sviluppo promossi dai grandi gruppi industriali nel perimetro della politica economica fascista.
La ripresa economica della seconda metà degli anni Trenta fu accompagnata anche da iniziative di lancio turistico, tra finanziamenti per l’autarchia, commesse militari e l’impennata del volume di esportazioni (implementate anche dalla guerra d’Etiopia e da quella in Spagna). Il censimento del 1937-1939 evidenziava un calo provinciale nel numero di addetti ai trasporti e alle comunicazioni (scesi a 3.673 unità), ma nel complesso la quota di maestranze impegnate nell’industria, nei trasporti e nel commercio era salita a 58.672 (con un incremento di 4.167 addetti e di 5.411 esercizi rispetto al 1927). La riduzione degli impiegati nei servizi (-445) venne controbilanciata dall’aumento nel secondario (38.774 addetti, +12,12%) e nel commercio (+16,07%), conseguenza del proliferare di piccole e piccolissime attività molto probabilmente aperte da coloro che continuavano a non trovare occupazione. Nonostante lo sviluppo dell’industria tirrenica e fiorentina avesse portato leggermente alleviato il peso di quella pisana, restava elevato – ma contratto rispetto a quelle del 1927 – anche il numero di addetti impegnati nel cotoniero, nell’industria alimentare, nell’edilizia e nella lavorazione del legno (quasi tutte realtà di piccole dimensioni): a segnalare una drastica riduzione fu invece il ramo della metallurgia, cui sopperirono solo in parte le assunzioni nelle realtà connesse alla pesca, al cartario, alle industrie poligrafiche, alle realtà estrattive, alla lavorazione dei minerali non metallici (in particolare del vetro, sebbene gli aumenti di produttività disposti dalla riorganizzazione delle imprese non avessero caratterizzato impennate occupazionali di eguale portata), alla meccanica (grazie al potenziamento delle produzioni aeronautiche della Piaggio e della Cmasa), alla chimica (+63,66%, con la riduzione degli esercizi e lo sviluppo di Larderello), alla lavorazione del cuoio e alle pelli. Per quest’ultima, nello specifico, il numero di addetti e quello degli esercizi erano aumentati rispettivamente del 172,24% e del 549%.
Ad ogni modo, lo sviluppo degli anni Trenta si basò soprattutto sulla crescita delle industrie di grandi dimensioni (nel 1934, ad esempio, l’apertura dell’agenzia Olivetti a Pisa delineò un sistema di monopolio per gli uffici statali e parastatali che frenò l’attività di altre solide realtà del settore come la Sbranti & Ghignola). Certo, almeno nell’area pisana persisteva una qual certa difficoltà nell’incentivare la creazione di un vero e proprio indotto circostante di imprese minori: la maggior parte dei laboratori rispondeva ad una domanda relegata al mercato locale, tra segherie, fonderie di ghisa, carpenterie metalliche e bullonerie. Andava così consolidandosi un «dualismo territoriale» (secondo la definizione di Gian Carlo Falco, ai cui studi si deve la gran parte dei dati qui riportati) in grado di mantenere saldi i suoi riferimenti industriali nei centri di Pisa, Pontedera e Cascina e del Valdarno e in cui l’offerta di lavoro guardava sempre più verso la meccanica (5.327 addetti nel 1939), garante di livelli retributivi più elevati e di una elasticità produttiva capace di assorbire larghe sacche di addetti con bassa produttività o di sottoccupati che avevano subito l’irrigidimento prodotto dal fascismo nei rapporti di produzione.
Dopo il drammatico passaggio della guerra, le imprese colpite dai bombardamenti riuscirono a rilanciare la produzione in tempi piuttosto rapidi. La diffusione e il peso delle attività agricole locali contribuirono a tamponare le criticità dei primi anni, al pari delle piccole e delle piccolissime realtà produttive che avevano pur risentito del reclutamento militare: i danni subiti dalle concerie e dall’industria dell’abbigliamento vennero bilanciati dalla ripresa delle comunicazioni e dell’edilizia, allora due dei principali bacini di reddito e di lavoro. La disoccupazione restava però molto alta, complice il persistere di una significativa quota di braccianti agricoli; l’abbondanza di manodopera corrispondeva inoltre a paghe relativamente basse, tracciando i termini di un relativo controllo della conflittualità sociale. A trainare il rilancio furono le grandi realtà del territorio, a partire dalla Saint Gobain: ben oltre la graduale meccanizzazione della produzione, i 600 addetti del 1946 (erano 1.200 prima della guerra) aumentarono grazie all’incremento delle commesse tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, prima di decrescere nuovamente nel ventennio successivo a seguito della riorganizzazione dello stabilimento. La Marzotto ripartì a pieno ritmo nel 1949 (ma già nel 1946 i telai erano tornati in attività), realizzando alloggi per i dipendenti ed un’apposita foresteria: il suo successo temporaneo sul mercato interno ed estero si legò alla produzione di tessuti cardati, appetibili per i bassi redditi del dopoguerra e capaci di garantire – a differenza degli stabilimenti Veneti del gruppo – una qual certa stabilità nel numero di addetti; sarebbe stato così almeno fino all’inizio degli anni Sessanta, quando l’aumento del potenziale d’acquisto e la richiesta di abiti confezionati avrebbero creato non poche difficoltà all’impianto pisano.
Protagonista assoluta della fase di riconversione fu la Piaggio, che orientò la propria produzione sui motocicli e sui mezzi di trasporto: la fabbricazione in serie della famosa Vespa partì proprio dalla fabbrica di Pontedera, diffondendosi fino a diventare uno dei simboli del cosiddetto miracolo economico italiano. Nel 1953 i lavoratori impegnati nello stabilimento erano triplicati rispetto a quelli del 1945, pur risultando il 43% di quelli occupati – in piena economia di guerra – nel 1943. La Camsa virò a sua volta verso la produzione di carrozze ferroviarie e di autobus, sfruttando un organico nettamente ridimensionato rispetto a quello attivo durante il conflitto: l’impianto sarebbe sopravvissuto come società immobiliare fino all’assorbimento nella Fiat nel 1967, percorrendo la traiettoria che nel 1953 aveva portato lo stabilimento di Marina di Pisa nel gruppo Aeritalia e alla sua ridenominazione in Sezione di officina di Marina di Pisa. La Richard Ginori, infine, riprese con qualche ritardo rispetto alle altre realtà: dopo essere stati occupati dagli Alleati gli impianti furono parzialmente ammodernati, permettendo allo stabilimento di continuare a produrre quasi la metà delle fabbisogno nazionale di terraglie. L’installazione e gli investimenti destinati all’impianto di Sesto Fiorentino (concepito per la produzione di porcellana) spinsero quello di Pisa verso la specializzazione nelle terraglie forti, lasciando all’impianto di Livorno la fabbricazione di isolatori di ceramica, refrattari e ceramiche speciali e a quelli di Milano la linea dei sanitari in porcellana, delle piastrelle per rivestimenti e dei sanitari in porcellana verificata.
Dalla relazione stilata dalla Camera di Commercio per l’Inchiesta sulla disoccupazione del 1951, pertanto, ad emergere era un contesto dinamico e in crescita. La ripartizione delle colture era andata percentualmente modificandosi rispetto al catasto del 1929, aumentando la superficie destinata ai seminativi e alle colture legnose specializzate; risultava viceversa in diminuzione quella destinata ai prati da pascolo e ai pascoli permanenti, con la riduzione degli incolti produttivi al 3%. Delle 30.460 aziende presenti sul territorio provinciale 16.900 figuravano in collina (dove l’agricoltura era prevalentemente intensiva) e 13.560 in pianura (dove la pratica, al contrario, era estensiva): tra queste il maggior addensamento riconduceva ad unità poderali comprese tra 1,01 e 20 ettari (quasi il 50% del totale), accompagnato da un 38% di piccolissime aziende (con superficie fino ad un ettaro); il restate era costituito da realtà tra i 20 e i 50 ettari, con la presenza di 190-195 unità tra i 50 e i 100 ettari, di 70-75 racchiuse tra i 100 e i 200, di 26-30 tra i 200 e i 500 e di 25-30 con ampiezza superiore ai 500 ettari. Il contratto di mezzadria restava la forma prevalente, con la sola parte silvo-pastorale condotta ad economia: persistevano inoltre aree a conduzione diretta (lavorate sia proprietari che da coltivatori diretti), dove operavano anche braccianti e lavoratori giornalieri. La produzione principale restava quella del frumento, cui precedeva quella delle patate, dell’avena, dell’erba medica, del cavolfiore e del pomodoro; sul piano delle culture arboree spiccavano il pero, il melo, il pesco, il susino e il ciliegio (con l’eccellenza di Lari), superate però dalla presenza di viti e ulivi. Il legname dal lavoro veniva ricavato prevalentemente dalle piante latifoglie e da quelle resinose (soprattutto il pino); il patrimonio zootecnico contava infine 47.790 bovini, 5.540 equini, 35.850 tra ovini e caprini e 18.358 suini.
L’attività mercantile continuava ad occupare un ruolo di rilievo, con circa 6.000 ditte che impegnavano – tra titolari e dipendenti – quasi 11.000 persone. Le imprese dedite al commercio all’ingrosso orbitavano attorno alle 650, alle quali si sommavano 2.800 unità di commercio al dettaglio (sovente a conduzione familiare), 1.200 ambulanti e 300 attività ausiliarie: la maggior parte verteva sull’esportazione di prodotti ortofrutticoli, mentre lo smercio del vino e dell’olio guardava sempre più ai mercati degli Stati Uniti e dell’Europa Centrale. Le cento e più sagre e le circa centoquaranta fiere annue garantivano un florido mercato interno del bestiame, ma anche di mobili, alabastro, laterizi e prodotti conciari. La maggior fucina occupazionale restava comunque quella industriale, che nel 1951 contava complessivamente 17.818 addetti: 1.330 lavoravano nelle industrie estrattive, tra le cave di pietra e pietrisco di San Giuliano e Vicopisano, l’alabastro di Castellina Marittima e del Volterrano, il salgemma di Saline di Volterra (ove risiedeva un’azienda del Monopolio di Stato) e le sorgenti di acque minerali di Uliveto Terme, Agnano Pisano, San Leopoldo, San Francesco, San Giuliano, Bagni di Cascina e San Miniato; 27.569 nel manifatturiero (5.821 esercizi), tra l’industria della lavorazione del legno di Cascina, Ponsacco, Vicopisano, Bientina, Buti e Santa Maria a Monte, quella alimentare, meccanica, chimico-farmaceutica (con realtà quali la Baldacci, la Saint-Gobain e Vis), tessile (che contava due medie industrie canapiere anche a Pontedera) e del cuoio e delle pelli di San Miniato e di Santa Croce sull’Arno (dove tra il 1971 e il 1975 il numero delle concerie passò da 467 a 519 e quello di operai da 3.683 a 4.203). L’industria delle costruzioni e dell’installazione degli impianti occupava invece 3.309 addetti, a cui si sommavano i 352 della produzione e distribuzione dell’energia elettrica, i 4.149 dei trasporti e comunicazioni, i 615 impegnati nel credito e nelle assicurazioni e 2.058 riconducibili ad attività e servizi vari.
La crescita dei settori industriali pisani portò la struttura provinciale dei primi anni Sessanta a raggiungere livelli vicini a quelli toccati tra le due guerre mondiali, sfruttando processi di meccanizzazione produttiva e – conseguentemente – una manodopera meno qualificata. Fu in questa fase che lo sviluppo di una rete di piccole imprese specializzate, attive soprattutto nei comparti dell’industria leggera, riuscì a garantire un supporto fondamentale alle prime avvisaglie di sofferenza registrate dalle grandi imprese di Pisa e Pontedera, segnando i termini di un massiccio trasferimento di manodopera dall’agricoltura all’industria e rimodellando il sistema secondario locale attorno a settori ad alta intensità di manodopera. La formazione di realtà distrettuali (come per la lavorazione del cuoio e delle pelli e per quella del legno) consentì di rispondere adeguatamente all’incremento della domanda nei campi dell’abbigliamento, della biancheria, della maglieria e delle calzature, stimolata altresì dall’avvio del Mercato Comune Europeo (1957). Parimenti, l’incremento della scolarizzazione, degli iscritti all’Università (specialmente dopo il 1968) ed il miglioramento delle tutele sanitarie indussero una lievitazione degli occupati nel campo dei servizi, dei trasporti (simboleggiati dalle evoluzioni dell’aeroporto Galileo Galilei) e del pubblico impiego, tanto da spingere – nell’arco di un ventennio – ad una crescita esponenziale la quota di impiegati nel terziario: nel 1971 gli addetti nel campo del credito e delle assicurazioni erano saliti infatti a quota 1.462; quelli dei servizi a 4.192 (e il numero di attività a 2.034).
Come anticipato, sul finire degli anni Sessanta le grandi imprese pisane iniziarono a scontare gli effetti della crisi. Le impellenti riconversioni e i processi di razionalizzazione produttiva portarono nel 1968 alla chiusura dello stabilimento Marzotto, riconvertito per un decennio alla Forest e all’Industria Tessile Pisana (con l’intervento pubblico di salvataggio attraverso la Gepi). Una sorte analoga spettò alla Richard Ginori, che dopo durissime lotte chiuse i battenti nel 1975. Nel 1971, dopo aver assorbito la Vis nel 1967, la Saint Gobain annunciò a sua volta un programma di ridimensionamento occupazionale nello stabilimento di Pisa; contemporaneamente la Fiat comunicò la decisione di voler interrompere le produzioni meccaniche nello stabilimento di Marina di Pisa, all’interno di un processo di decentramento che guardava all’apertura di nuovi stabilimenti nelle aree del Mezzogiorno per disporre di manodopera meno costosa e alleggerire le pressioni sulla realtà torinese.
Nel giro di pochi anni l’intero comparto delle maggiori industrie pisane si scoprì così profondamente indebolito, catapultato nei termini di una deindustrializzazione precoce che escludeva le sole – parziali – eccezioni della Piaggio e della Saint-Gobain. Gran parte della manodopera fu assorbita dal terziario, complice la diffusione di attività di ristorazione e ricezione sia sul fronte turistico che universitario. A moltiplicarsi furono soprattutto le piccole e medie imprese, specialmente nel campo dell’industria leggera, distinguendosi per tutti gli anni Settanta come la componente più dinamica sul fronte occupazionale: nel 1981 il numero di addetti al manifatturiero aveva raggiunto le 62.044 unità (con 8.392 esercizi), mentre quello di impiegati nei servizi aveva toccato quota 6.999. Ad essere confermata era la richiesta di una manodopera non particolarmente qualificata, poco costosa e flessibile, da catapultare in processi ormai maturi dal punto di vista tecnico tra la spinta conferita dall’inflazione e l’aiuto garantito alle nuove realtà dalle istituzioni di credito. Eppure nel corso degli anni Ottanta la diminuzione complessiva del potenziale industriale risultò sempre più evidente, con la perdita del 25% delle unità locali e degli addetti: anche la Piaggio e la Saint Gobain ridimensionarono il numero di operai e impiegati, spalancando le porte ad un largo ricorso agli ammortizzatori sociali e ad un esubero di manodopera impossibile da assorbire per intero tanto dal terziario quanto dalle piccole-medie imprese.
Il distretto industriale del Valdarno (Santa Croce sull’Arno, San Miniato, Ponte a Egola, Castelfranco di Sotto, Montopoli Valdarno, Santa Maria a Monte) riuscì a mantenersi su buoni livelli grazie alla specializzazione nei rami del cuoio, delle pelli e delle calzature e ad una flessibilità dettata dalla consistente presenza di ditte individuali e di società in nome collettivo. Prima di conseguire un calo del 7,7% tra il 1981 e il 1991 (-10,2% a San Miniato e -14,6% a Castelfranco di Sotto), dal 1971 e il 1981 la percentuale di addetti all’industria crebbe qui del 36,5%, restando comunque l’unica tra tutte le zone della provincia a mantenere un saldo occupazionale attivo anche nel secondo decennio considerato (+7,1% se considerati tutti i settori). A ben vedere, si trattava di percentuali ben distanti da quelle delle altre aree: nella Piana di Pisa il decremento industriale per decennio (1971-1981; 1981-1991) era stato rispettivamente del -6,4% e del -35,2% (-45,1% a Cascina, -35% a Pisa, -54,6% a San Giuliano Terme, -36,1% a Vecchiano), con gli addetti dell’abbigliamento passati da 956 a 451, della lavorazione di minerali non metallici da 3.305 a 2.211, delle industrie chimiche da 1.307 a 1.145 e delle costruzioni e dei mezzi di trasporto da 2.213 a 1.505; nella Valdera le percentuali erano andate da un +35,4% ad un -32,9%, mentre nella zona tra le colline e la Val di Cecina – dove nel mondo agricolo erano state promosse una serie di fusioni cooperative – la forbice aveva si era ristretta da un +0,8% ad un -20,3% (cifre a ben vedere più contenute rispetto a quelle delle altre aree, grazie alla presenza di risorse naturali e all’imprescindibilità di queste ultime per le Saline di Stato e per l’Eni). Ciononostante, se tra il 1981 e il 1991 il totale di addetti all’industria segnava un calo generale del 23,8% (con percentuali positive solo a Lari e Casciana Terme), il totale complessivo degli occupati risultava del +39,9%.
Nel corso dell’ultimo trentennio la città ha fatto sempre più perno sullo sviluppo dei servizi turistici e culturali (grazie al ricco patrimonio storico e paesaggistico), alla persona (nel 1996 venne chiuso definitivamente l’Ospedale Psichiatrico di Volterra) e alle imprese, oltreché sul consolidamento di apparati industriali quali la nautica (dalla cantieristica nautica da diporto della Navicelli Spa, che si occupa della gestione del Canale dei Navicelli su delega del Comune di Pisa, alle altre unità aziendali insediate nel Porto Pisano), il calzaturiero, la meccanica, il campo del cuoio ed il chimico-farmaceutico (prodotti chimici, fibre sintetiche, materie plastiche e in gomma, fino alla presenza di aziende farmaceutiche come Abiogen Pharma, Istituto Gentili, Farmigea, Laboratori Baldacci, Menarini e Laboratori Guidotti). L’universo agricolo di aree come Cascina, Chianni e la Val di Cecina, incentrato sulla produzione di grano, dell’olio, del vino e in alcuni spazi della floricoltura, ha evoluto il proprio tessuto in forme consortili, di aggregazione cooperativa e di riconversione turistica (come testimonia la diffusione degli agriturismi). Non da meno è stato lo sviluppo della rete infrastrutturale, guidata dalla dimensione internazionale raggiunta dall’aeroporto Galileo Galilei. Inoltre, il consolidamento del Polo ospedaliero pisano come massima espressione della sanità costiera toscana (con le zone distrettuali di Pisa, dell’Alta Val di Cecina e della Valdera, il centro privato di San Rossore e le fondazioni di ricerca Stella Maris e Gabriele Monasterio) ha affiancato un potenziamento della ricerca scientifica espresso dall’istituzione del Centro Nazionale delle Ricerche di Pisa (in zona San Cataldo), dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, dell’Ente Nazionale per l’Energia e per l’Ambiente, del Centro di Ricerca Termica dell’Enel, del Polo Tecnologico di Navacchio e del Polo Tecnologico Sant’Anna-Valdera. Si sono poi aggiunti centri a partecipazione mista con funzioni di coordinamento tra Università (che in città conta anche due poli di eccellenza mondiale quali la Scuola Normale Superiore e la Scuola Superiore Sant’Anna) e mondo imprenditoriale, tra cui il Consorzio Pisa Ricerche, il Consorzio Qualital e il Centro per l’Innovazione e la Società Aurelia, che gestisce il Parco Scientifico Tecnologico della Toscana Occidentale. Una base che ha dato la spinta alla formazione del Polo Tecnologico di Cascina (specializzato in tecnologia micro-elettronica), al Polo Scientifico e Tecnologico di Pontedera, al Polo Tecnologico di Santa Croce (comparto conciario), al Polo Tecnologico di Peccioli (operativo nel campo dell’assistenza ai disabili) e ad una ramificata presenza di aziende impegnate nella fornitura e nella realizzazione di software, consulenza informatica, elaborazione elettronica dei dati, apparecchi per il controllo dei processi industriali e servizi di telematica, robotica, domotica e eidomatica.
Negli ultimi anni il mercato immobiliare ha visto rallentare l’andamento positivo dei primi anni Duemila (con la nascita della Borsa Immobiliare Pisana), restando comunque legato all’alto numero di studenti universitari, allo sviluppo del polo ospedaliero di Cisanello e al tendenziale ampliamento della zona industriale della provincia (nel primo lustro del nuovo millennio la media impresa è cresciuta del 10% e la piccola del 6%). Parimenti sono aumentati gli esercizi commerciali, soprattutto alimentari (1.512 botteghe nel 2005), nonostante la diffusione dei supermercati (tra cui il megastore Ikea): il comprensorio del cuoio ha visto salire il numero di attività produttive fino a 800, con circa 10.000 addetti e il 98% della copertura nazionale del cuoio da suola. Ciò ha dato vita anche ad iniziative quali il Tavolo Provinciale della Moda (2003), piattaforma di studio pensata per analizzare le direttive del mercato del tessile, dell’abbigliamento e del settore calzaturiero.
La presenza centri di attrazione turistica ha portato ad un incremento del numero di visitatori, sempre più attratti dall’enogastronomia territoriale (tra cui spicca la produzione vinicola delle colline pisane) e dalla presenza di piccoli borghi sparsi sul territorio. Un processo che ha avuto un influsso significativo su strutture ricettive, ristoranti, edilizia, esercizi commerciali, artigianato, trasporti, attività museali e culturali, almeno fino alla crisi del 2008-2009. L’impatto di quest’ultima ha assestato infatti un duro colpo anche all’economia provinciale, sia in termini produttivi che occupazionali: nel 2011 il tasso di disoccupazione aveva toccato il 6% (pur tra i valori più bassi della Toscana), con circa 2.500 giovani tra i 14 e i 24 anni in cerca di lavoro (29,5%) ed un evidente calo di iscrizioni all’Università. Un aumento era stato fatto registrare anche dal tasso di disoccupazione femminile (vicino al 30%), contribuendo ad abbassare quello di occupazione al 53% (gli avviamenti al lavoro erano calati del 18%, mentre le interruzioni erano salite del 35% a fronte di un 10% di stabilizzazioni contrattuali). Nel 2011, nonostante la discesa della Cig ordinaria (-37%) e della Cig in deroga (-28%), quella straordinaria era aumentata del 38%; quanto all’indennità ordinaria di disoccupazione, i suoi precettori avevano raggiunto un incremento del 20% (dai 4.228 del 2010 ai 5.083 del 2011). Dati in linea con quelli del 2010, che all’andamento positivo dei servizi alle imprese (+1,7%) e dei servizi alle persone (+2,6%) avevano contrapposto saldi negativi nelle costruzioni (-4,1%) e nel manifatturiero (tra il -2% e il -3,1%).
La ripresa degli anni successivi ha conosciuto un nuovo stop con la pandemia del 2020, gravando sulle attività commerciali della zona e congelando l’indotto legato alla presenza studentesca. Il 2022 ha aperto però alcuni spiragli di ripresa, sospinto dalla solidità dei grandi poli produttivi provinciali, dalla tenuta del settore meccanico e dal traino turistico (+29% dei flussi dal dicembre 2021 al dicembre 2022), commerciale (+36%) e terziario. Il 64% delle assunzioni previste nel dicembre 2022 riguardava sintomaticamente i servizi, precedendo le imprese con meno di cinquanta dipendenti e le professioni impiegatizie.
Federico Creatini
09/01/2023
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