Pistoia


Compresa fra la circoscrizione di Lucca e quella di Prato, la provincia di Pistoia affianca ai rilievi dell’Appennino Tosco-Emiliano un’ampia pianura meridionale attraversata dai corsi del torrente Nievole, della Pescia e dell’Ombrone Pistoiese. La circoscrizione amministrativa fu istituita con regio decreto nel 1927, inglobando la Valdinievole da Lucca e il circondario di Pistoia, la montagna, la piana, Lamporecchio e Larciano da Firenze. Nel 1901 il solo capoluogo ospitava 65.187 abitanti, maggioranza di un totale composto – Valdinievole compresa – da 192.855 unità.

Sul finire del XIX secolo il 50,8% della popolazione risultava impiegato nel settore agricolo, a fronte di un 22,% attivo in campo industriale: nel primario lavoravano 27.389 addetti, il 51% dei quali mezzadri, il 20,5% piccoli proprietari e coltivatori diretti, il 23,2% braccianti e l’8,3% fittavoli. Le cosiddette altre condizioni raggruppavano il restante 7%, senza scalfire il ruolo preminente giocato dalla componente mezzadrile e i prodromi della transizione demografica che iniziarono a svilupparsi attorno ad essa. Tra il 1901 e il 1921 i residenti nelle case sparse delle campagne pistoiesi scesero infatti dal 69% al 57% del totale, generando un incremento abitativo negli agglomerati urbani di piccole e grandi dimensioni (che nello stesso arco ventennale passò dal 31% al 43%). Lo stesso avvenne per l’area montana (dove nel 1921 risiedeva il 20,4% della popolazione “provinciale”), dove l’attrattiva occupazionale era già allora esercitata da realtà industriali quali la Società Metallurgica Italiana di Campo Tizzoro e Limestre e le Officine Ferroviarie San Giorgio di Pistoia (che nel 1911 avevano dichiarato 882 assunti).

La configurazione terriera pistoiese restava comunque estremamente parcellizzata, suddivisa in poderi di piccole e piccolissime dimensioni: non era raro – specie in Valdinievole – che professionisti, commercianti e artigiani scegliessero di investire nella terra per poi affidarla in mezzadria, giustificando in tal senso la moltiplicazione dei proprietari, la configurazione di nuclei familiari più ristretti ed una riduzione estensiva dei terreni che aveva già avuto inizio nella seconda metà del XIX secolo. Come osservato da Stefano Bartolini (recuperando i dati riportati dal conte Guicciardini, possidente di proprietà a mezzadria sia nel Valdarno che nella provincia), d’altronde, la media di una famiglia mezzadrile pistoiese era di circa 8,5 unità: quella dei componenti addetti al lavoro si aggirava attorno a 3,1, con un reddito medio di 1.249 lire.

La produzione verteva sulle classiche coltivazioni regionali – esclusa quella della barbabietola da zucchero, a cui si aggiungeva una scarsità di alberi da frutto – del grano, della patata e del granturco, con  importanti peculiarità nella gelsibachicoltura, nella diffusione dei castagneti (che costituivano il 15% della superficie agraria boscosa), nella coltura della saggina ed in quella del panico. Finalizzate al commercio erano inoltre le produzioni olivicole (67% delle colture legnose) e vinicole (20%), i cui costi di impianto venivano spesso scaricati sui mezzadri attraverso “patti di fossa” che li obbligavano a svolgere operazioni di scasso e di escavazione per l’installazione dei nuovi vigneti. Anche il vivaismo risultava in crescita, capace di assorbire – tra Pescia e Pistoia – un alto tasso di manovalanza agricola fin dal primo Ventennio del XX secolo.

La comparsa delle prime macchine da lavoro e l’introduzione di nuovi aratri, falciatrici, trebbiatrici e mietitrici non ovviarono a investimenti insufficienti, incapaci di fornire alla manodopera contadina mezzi adeguati per fronteggiare l’aumento dei ritmi di lavoro: fu così che un numero crescente di lavoratori scelse di volgere il proprio sguardo verso le imprese dei centri urbani (impossibile non rilevare la centralità del calzaturiero in realtà come Monsummano, sostenuta dalle vicine concerie di Pescia e Santa Croce e animata al livello industriale dal pionieristico Calzaturificio per forniture militari Lorenzo Billi), tanto che nel 1911 il Censimento degli Opifici e delle Imprese industriali arrivò a registrare 26 imprese con più di 25 occupati. La provincia restava intanto soggetta ad importanti flussi migratori, sopratutto stagionali: dopo la raccolta delle castagne (novembre), ad esempio, molti carbonari scendevano dalle montagne pistoiesi per recarsi alcuni mesi in Maremma, quando non in Corsica, Sardegna, Lazio o addirittura in Amazzonia.

Nel 1931 la popolazione della neonata provincia era salita a 209.792 abitanti, nonostante il sostanziale immobilismo demografico del capoluogo. La mezzadria continuava a dominare lo scenario collinare (dove caratterizzava il 59,8% della superficie agraria) e della pianura (50,2%), mentre nelle zone montane la diffusione della coltivazione diretta ne ridusse la presenza al 27,2%. Delle 26.707 aziende agricole provinciali, 7.620 non superavano gli 0,25 ettari di estensione: altre 1.950 potevano essere collocate tra il quarto e il mezzo ettaro, 3.046 dal mezzo ettaro all’ettaro, 8.033 tra l’ettaro e i due ettari, 3.408 da tre a cinque ettari, 1.936 dai cinque ai dieci, mentre solo 680 si assestavano tra i dieci e i cinquanta, 35 entro i cento, 21 tra i cento e i duecento e 12 fino a cinquecento. Nello specchio di una simile polverizzazione, una sola realtà poteva essere compresa tra i cinquecento e mille ettari. Dovevano poi essere considerate – nel 1930 – 163 fattorie (il 13,5% delle superficie totale, per un media di 75 ettari), particolareggiate da 2.107 poderi dall’estensione media di 5,8 ettari: di fatto gli attivi in agricoltura occupavano ancora il 46,8% della forza lavoro (48.808 unità), sebbene l’ascesa dei comparti industriale (37,2%) e commerciale (8,8%) avesse iniziato a far sentire i suoi effetti.

Fu la “battaglia del grano” mussoliniana ad assestare un duro colpo alla zootecnica e alle colture vinicole e olivicole provinciali. Al pari di quella della castagna, la produzione cerealicola subì un brusco negli anni immediatamente successivi al 1933: a risentirne furono anche i prezzi dei prodotti tipici toscani, arrecando non pochi danni alle famiglie coloniche. Controtendenza, il vivaismo continuò invece a registrare alti tassi di crescita: tra il 1920 e il 1940 la superficie ad esso dedicata raddoppiò, portando i vivai fin dentro le campagne grazie all’esplosione della floricoltura nel pesciatino (destinato a divenire uno dei principali poli di commercio e produzione nazionali, nonché sede di un importantissimo mercato). Tuttavia, il Ventennio fascista non riuscì a scalfire le prevalenza provinciale della mezzadria: i capifamiglia mezzadri erano ancora 7.390 nel 1942, parte di un totale composto da 31.830 unità (14.631 uomini, 3.970 donne e 3.229 ragazzi); considerando l’assenza delle donne dei registri delle assicurazioni, la quota reale si aggirava molto più probabilmente sulle 40.000 unità (42.934 secondo i dati raccolti dall’Unione sindacale fascista dei lavoratori dell’agricoltura nel 1941, con una media di sei membri per famiglia ed una popolazione mezzadrile tra i 12 e i 65 anni che ammontava a 26.774 unità). A queste si sommavano – stando a quanto riportato negli elenchi anagrafici per le assicurazioni generiche – 296 salariati, 385 braccianti fissi, 156 permanenti, 380 abituali, 254 occasionali e 186 eccezionali, oltre a 136 piccoli coltivatori.

Il passaggio del fronte segnò ulteriormente l’economia provinciale, il cui momento più critico arrivò nell’estate del 1944. Il numero di equini venne dimezzato, i bovini diminuirono del 61%, così come gli ovini (43%) e i caprini (50%); a salvarsi furono solo gli allevamenti di suini, comunque distanti dai livelli quantitativi degli anni Trenta. Le famiglie mezzadrili avevano raggiunto nel frattempo la cifra di 8.593 (impegnate su 33.793 ettari di coltivato), a dispetto dei 1.356 nuclei di affittuari (2.232 ettari) e delle 11.169 famiglie di coltivatori diretti (25.186 ettari): il tutto nelle trame di un quadro occupazionale complesso, che nel 1949 – dopo il picco di quasi 12.000 unità tra il 1946 e il 1947 – contava ancora 9.378 disoccupati (7.755 uomini e 1.623 donne).

La situazione iniziò a mutare nei primi anni Cinquanta, a partire da un aumento complessivo della popolazione (219.582 abitanti nel 1951). La configurazione della proprietà presentava ancora un forte squilibrio nel possesso della terra: il 93% (pari a 41.438 proprietari) degli iscritti al catasto possedeva il 33% della terra coltivabile, mentre il 52% deteneva superfici di terreno inferiori al mezzo ettaro. Nella media proprietà – tra i cinque e i dieci ettari – rientravano a loro volta circa 1.300 proprietari, accompagnando la crescita dei possessori sopra i cinquecento (5) e i mille ettari (4): l’81% dei proprietari poteva contare così su di un reddito imponibile di 400 lire, con il solo 4% della proprietà a rappresentare il 60% del reddito imponibile totale dell’agricoltura pistoiese (le principali aree a specializzazione agricola erano quelle di Marliana, Larciano, Chiesina Uzzanese, Serravalle Pistoiese, Quarrata e Ponte Buggianese). Ad incentivare l’allontanamento dalle campagne fu pertanto la possibilità di modificare il proprio status socioeconomico, sebbene gli incrementi nelle coltivazioni di alberi da frutto (peschi, meli, susini, peri e ciliegi) ed il boom definitivo della floricoltura (tra il 1950 e il 1960 gli ettari salirono da 200 a 505, trainati dalle colture del garofano e dei gladioli) costituissero fattori tutt’altro che marginali: rispetto al 1945, il 1950 presentava emblematicamente quasi 15.000 unità mezzadrili in meno, segnando i termini di un processo alimentato nella sua eterogeneità zonale dallo sblocco della mobilità postfascista e dagli incentivi del Piano Marshall.

Rispetto alla media stagionale, nel 1950 il tasso di partecipazione occupazionale della provincia rimase inferiore sia nelle aree montane che nel centro di Pistoia. Quello femminile orbitava nello specifico attorno al 19% (rispetto al 23% regionale), pur destinato ad aumentare – soprattutto nella zona centrale e nell’area ad est del capoluogo – durante il decennio 1951-1961. La Valdinievole aveva fatto invece registrare i tassi di sviluppo più elevati, vettore di un provincia che tra il 1951 e il 1971 vide il proprio numero di occupati passare da 88.000 a 97.200. A calamitare nuovi flussi di manodopera fu ovviamente il settore industriale (con centri importanti a San Marcello Pistoiese, Montale, Agliana, Piteglio e Monsummano), coadiuvato dalla rapida ricostruzione della ferrovia Porrettana e alla pronta ripresa di uno stabilimento centrale come la San Giorgio (divenuta Officine Meccaniche Pistoiesi nel 1950, dopo l’incorporazione nell’Iri, ed in grado di mettere al lavoro 1.938 operai nel 1948).

Rispetto agli anni Trenta, nel lungo dopoguerra il numero delle realtà industriali e artigiani crebbe del 25,53% (prevalentemente nei settori della meccanica, della tessitura, del vestiario, delle calzature, del legno e mobilio (importante al riguardo la realtà di Quarrata, così come quelle di Agliana e Montale), della carta e dell’edilizia). Con esso salì quello delle esportazioni e decrebbe significativamente quello degli inoccupati, che dagli 8.125 del 1954 scesero ai 5.376 del 1959 (tra il 1951 e il 1971 il numero di addetti nelle imprese manifatturiere aumentò dell’80%, da 16.600 a 30.000 circa). Invero, pur impossibilitato ad assorbire in toto l’eccedenza di manodopera, di muratori, manovali ed ex carbonai provenienti dalle colline e dalle montagne pistoiesi (inducendo flussi di emigrazione temporanea o definitiva verso l’estero), nel 1951 il secondario pistoiese – al netto di un tasso di rapporto tra popolazione attiva e inattiva del 50,3% – aveva ormai raggiunto l’agricoltura per percentuale di addetti: se quest’ultima occupava ancora il 37,8% della forza lavoro, l’industria infatti si era ormai assestata sul 36,6%; al 25,6% si trovava invece il terziario, alimentato dalla spinta turistica (legata dalle realtà termali di Montecatini e Monsummano e dalle stazioni sciistiche dell’Abetone) e dalla proliferazione dei depositi a risparmio.

D’altro canto, la conformazione produttiva era arrivata ad essere caratterizzata da una vastissima gamma di produzioni che nel mondo della grande impresa si estendevano dalle realtà già citate ad altre quali le Cartiere Cini (Piteglio) e Magnani (Pescia) e gli Stabilimenti Marchi e Polli. A rappresentare la media impresa erano invece aziende come le Trafilerie e Punterie Toscane, il Cotonificio di Villa Cortese (Pistoia) e le Officine Meccaniche Minnetti (Pieve a Nevole), Cantini (Pistoia), Ricciarelli (Pistoia), Giannini, Riccioni, Del Magro e Venturi, generando un incremento di 2.710 unità tra il 1940 e il 1952 (le industrie connesse all’agricoltura erano salite da 228 a 365; quelle minerarie ed estrattive da 23 a 31; le industrie del legno e affini da 719 a 932; quelle di pelli, cuoio, pelo e penne da 430 a 544; le cartiere da 51 a 74; le industrie poligrafiche da 32 a 37; le industrie siderurgiche e metallurgiche da 251 a 348; quelle meccaniche da 305 a 596; le industrie dedite alla lavorazione di minerali – metalli esclusi – da 97 a 126; le industrie delle costruzioni da 226 a 542; le industrie tessili da 145 a 878; quelle relative al vestiario e all’abbigliamento da 746 a 955; nei servizi igienici e nella pulizia urbana da 468 a 515; le industrie chimiche da 51 a 65; nei trasporti e nelle telecomunicazioni da 764 a 1.126; nella combinazione di industrie in diverse classi da 142 a 289; le industrie alimentari e affini erano scese invece da 823 a 328, mentre quelle rivolte alla pesca e alla distribuzione di luce e acqua erano rimaste ferme rispettivamente a quota 8 e 18).

Nonostante le oscillazione del processo di riconversione post-bellica ed il susseguirsi dei licenziamenti, nei primi anni Cinquanta  anche la Società Metallurgica Italiana (1.430 operai nel 1948) contava quasi 1.000 operai (ma non erano stati pochi quelli che avevano scelto di muovere verso le industrie meccaniche specializzate dell’Europa settentrionale): impostata sulla lavorazione di munizioni, laminati e minuterie tra i centri di Campo Tizzoro (un autentico paese-fabbrica), Mammiano e Limestre (dove lo stabilimento era stato riabilitato nel 1940), quest’ultima avrebbe comunque chiuso definitivamente i battenti nel decennio successivo. Condizioni analoghe riguardarono anche la Cartiera Cini della Lima, che dai 500 addetti del 1950 scese ai 270 del 1965, fino alla cessazione della produzione nel 1977 e – con essa – dell’industria montana pistoiese. Continuava intanto a crescere il calzaturiero, che contava aziende di importanza nazionale come il Calzaturificio Famos di Monsummano Terme o quello Balducci di Pieve a Nievole: già nel 1928 il centro della Valdinievole poteva vantare sette fabbriche di calzature a macchina (di cui una di 100 operai), salite poi a nove nel 1934 (sui quindici calzaturifici presenti in provincia) e ad undici nel 1945. In parallelo andò sviluppandosi un movimento commerciale di grande intensità, animato di ditte esercenti che spaziavano dagli ambiti del credito, del cambio e dell’assicurazione (98 unità nel 1952) a quelli del commercio all’ingrosso (1.165 nello stesso) e al minuto (8.401, di cui 1.281 tra alberghi, trattorie e caffè): i servizi bancari contavano allo stesso tempo una Banca popolare, trenta sportelli della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia ed almeno dieci appartenenti alle Casse rurali e artigiane. Il consolidamento dell’export garantiva inoltre entrate da tutto il mondo, con merci dirette verso Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Australia, Austria, Belgio, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Cipro, Congro, Egitto, Ecuador, Eritrea, Etiopia, Francia, Germania, Grecia, Guatemala, Inghilterra, Irlanda, Libano, Libia, Malta, Marocco, Messico, Olanda, Perù, Portogallo, Rodesia, Siria, Sud Africa, Svizzera, Tunisia, Turchia, Uruguay, Stati Uniti e Venezuela.

Le conseguenze delle trasformazioni produttive impattarono anche sul versante agrario. I dati dell’Ufficio contributi unificati riportavano che nel 1960 erano rimasti 6.690 poderi a mezzadria (di cui 408 abbandonati), con il numero dei mezzadri sceso dalle 29.124 unità del 1955 alle 23.354 del 1959. La dimensione occupazionale volgeva verso una pluriattività di diverso tipo, di cui il secondario costituiva oramai il perno: nel 1958 l’industria pistoiese occupava il 38,6% della manodopera, ma i redditi operai costituivano ben il 63,40% di quelli provinciali (contro il 17,40% di quelli contadini). L’espansione dei servizi e della piccola media impresa caratterizzò l’economia territoriale nel ventennio 1970-1990, tra la nascita di numerose realtà cooperative (destinate a consolidarsi nei settori olio e vino, come le Cooperative Montalbano Olio & Vino di Lamporecchio) e il dilagare della floricoltura (nel 1959 si contavano circa 700 aziende nel settore, all’interno di un 3,9% di superficie seminata che evidenziava il persistere della frammentazione territoriale) a discapito del suolo seminato e dei frutteti: ad inizio anni Settanta il valore della produzione lorda vendibile dei vivai rappresentava il 38% del totale e quello delle floricoltura il 26%, (prodotto di 1.100 aziende). Nel 1971 il comparto industriale era intanto arrivato ad accogliere il 52,2% della manodopera, con il terziario al secondo posto (35%) e l’agricoltura ridotta al 12,8%: guardando a quest’ultimo dato il 57% della superficie restava direttamente condotto da salariati, il 40% da coltivatori diretti e solo un residuo 3% da mezzadri, seppur nel 1982 vi fossero ancora 855 aziende a mezzadria (tra cui il 5% delle aziende floricole della Valdinievole) contro le 16.928 a conduzione diretta e le 314 che impiegavano salariati.

La frammentazione territoriale evolse così in direzione di una vera e propria imprenditorialità (con il ritorno alla campagna negli anni Novanta attraverso il riacquisto delle case coloniche, spesso tramutate in agriturismi), tanto che agli albori del XXI secolo erano ancora presenti 16.376 aziende su 65.598 ettari. Ai vivai condotti con operai agricoli (anche di rilievo internazionale, come la Dolfi Piante e il Giorgio Tesi Group) si affiancavano le realtà del montalese – capaci di sfruttare la diffusione internazionale del “Chianti Putto” e del “Chianti Montalbano” – ed il consolidamento del Distretto calzaturiero della Valdinievole (interessato da processi di contrattazione territoriale), trainato da aziende di punta come Textus e Madigan. Nel 1981, oltretutto, la Breda di Pistoia figurava ancora tra le tredici imprese industriali sopra i 500 addetti della Toscana centro-settentrionale, affiancando dodici attività fiorentine.

Nel 2001 la provincia poteva vantare un sistema economico aperto, capace di attrarre in modo consistente risorse produttive dall’esterno e allo stesso tempo di cedere fattori produttivi corrispondenti ad agenti economici residenti nel territorio (soprattutto nell’area montana): il peso maggiore era passato alle attività terziarie (oltre il 66% del totale, di cui il 20,5% rappresentato dal commercio e il 46,2% dagli altri servizi), con particolari incrementi sul versante alberghiero, della ristorazione (+4,9%) e dei servizi alle imprese (+4,3%). Le oscillazioni dei mercati internazionali gravarono viceversa sull’industria, pur senza scalfirne eccessivamente la centralità produttiva e sociale (30% del totale occupazionale): il settore della moda (specialmente calzaturiera) vi influiva per il 10,3%, quello della meccanica per il 5,4%, quello del costruzioni per il 4,3% e le attività comprese nell’altra industria per il 7%; a fronte di un calo nel settore alimentare e agricolo (non ancora orientato verso il turismo enogastronomico), per di più, i vivai continuavano a crescere (+11% tra il 1999 e il 2000) al pari delle coltivazioni floreali (+6,1%).

L’impatto della crisi finanziaria del 2008 segnò inevitabilmente anche la provincia di Pistoia, che nel 2010 registrò un incremento delle ore di Cassa integrazione straordinaria del 269,9% e di quella in deroga del 56,3%. Le problematicità investirono l’export e il commercio interno, inficiando duramente anche l’andamento del distretto florovivaistico. Una inversione di tendenza è stata fatta registrare solo negli ultimi anni, tanto da lasciar auspicare un superamento positivo della congiuntura pandemica: dal 2020 al 2022 i termini occupazionali del comparto agricolo pistoiese hanno evidenziato un +0.4% di unità, accompagnando nella risalita i campi delle costruzioni (4.940 imprese attive, +2,4%), del commercio (6.895 esercizi, +2,1%), della sua componente all’ingrosso (+3,3%) e del turismo (nel 2017 Pistoia è stata eletta Capitale italiana della Cultura). Indici positivi sono stati raggiunti anche dalla meccanica, dall’elettronica (+2,5%) e dall’industria del mobile (+3,2%), controbilanciando la progressiva flessione dell’alimentare (-1,4%), del comparto moda (-2,1%), del cartario (-1,4%) e del ramo chimico-farmaceutico (-3,2%). Il tutto mantenendo costante la crescita dei servizi, con 7.309 imprese attive nel campo del supporto alle imprese (5.683 unità) e dei servizi alla persona (1.626).

Federico Creatini

09/01/2023


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