Lucca


Caratterizzata da un territorio eterogeneo e versatile, la provincia di Lucca conta una delle strutture economiche più rilevanti della Toscana. Nel corso del XX secolo le sue trasformazioni produttive sono state accompagnate da specifici fattori di continuità, legati alle peculiarità morfologiche dell’area e utili ad inquadrarne la trasversalità occupazionale.

Guardando alla conformazione socioeconomica della circoscrizione, è possibile individuare tre macrosistemi: la Garfagnana e la Media Valle del Serchio; la Versilia; la Piana di Lucca o Lucchesia (sull’attuale conformazione della provincia influirono i riassetti amministrativi disposti dal fascismo tra il 1923 e il 1928). Le loro traiettorie evolutive ci consegnano i termini di una pluralità politica, conflittuale e lavorativa significativa, particolarmente marcata qualora valutata nel rapporto tra la Versilia ed il resto della provincia.

Dal punto di vista agricolo, nella seconda metà del XIX secolo il quadro lucchese palesava già difformità sostanziali. Piuttosto diffusa in alta Versilia e in Valdinievole, la presenza della mezzadria si riduceva drasticamente nella Media Valle del Serchio, in Garfagnana ed in Lucchesia. A dominare un paesaggio tappezzato di corti rurali era la piccola proprietà, specchio di un frazionamento che nella sola Garfagnana si aggirava attorno al 50% della superficie produttiva. Alla base di una simile «anomalia toscana» sussistevano più motivazioni, su tutte l’indebolimento finanziario che – dopo il crollo dello Stato cittadino – aveva costretto il notabilato lucchese a vendere gradualmente i propri poderi a commercianti, piccoli industriali e professionisti. Le successioni ereditarie finirono inoltre per atomizzare possedimenti un tempo molto vasti, inducendo la scomparsa della grande proprietà aristocratica: nel 1901 la media provinciale dei proprietari ne registrava indicativamente 25 per chilometro quadrato, a fronte dei soli 7 regionali.

Con la piccola e media borghesia poco propensa a seguire il lavoro campestre, peraltro, l’assetto conservatore e statico della società lucchese continuò a riflettersi sulla struttura agraria. Gli appezzamenti furono venduti o affittati ai coloni, secondo procedure di cessione regolamentate da enfiteusi e – nelle zone collinari – da patti di «colonia di affitto». Più raramente gli accordi venivano stipulati con la componente mezzadrile, comunque autonoma ed in grado di gestire la direzione tecnica dei fondi. Nel 1911 la popolazione della Lucchesia impegnata nel settore primario contava così 77.198 lavoratori (il 55% della popolazione attiva), responsabili di un appezzamento medio di 1,73 ettari pro capite; negli anni Venti, il 25% della cittadinanza continuava invece a risultare iscritta nei ruoli dei contribuenti all’imposta sui terreni.

Tra gli allevamenti più redditizi vi era quello dei cavalli, di caratura nazionale. Le coltivazioni del frumento, del granturco e dell’avena garantivano una buona produzione rispetto alla superficie coltivata, alimentando la capillare diffusione di molini lungo il flusso del fiume Serchio. A nomi noti come quello del Molino Pardini di S. Pietro a Vico se ne sommavano moltissimi altri di istituzione tardo ottocentesca: risultavano circa 400 attorno al 1940, quasi tutti funzionali alla macinazione del grano tenero per la panificazione. Tra le colture più floride emergevano poi il farro, i foraggi (fieno, erba, leguminose), l’olivo e il vigneto, mentre la zona costiera trovò un impulso momentaneo nel rilancio delle risaie. In ogni caso era la Garfagnana a presentare alcune tra le produzioni più rinomate, alternando alla pratica della transumanza lo smercio delle patate di Corfino e Porrettana, del legno (abete) e della farina di castagne (la produzione crollò drasticamente attorno alla metà del XX secolo, quando i castagni furono colpiti dal cancro corticale).

Dai monti proveniva oltretutto una cospicua percentuale della produzione provinciale di formaggio, burro, ricotta e latticini, incentivando la relazione tra agricoltura e industrie alimentari. Nel primo ventennio del XX secolo crebbe sintomaticamente il numero di unità locali dedite ad attività molitorie, dolciarie, casearie, idrominerali ed alla fabbricazione bevande analcoliche, ponendo le basi – destinate ad espandersi negli anni Cinquanta – dell’industria conserviera e di quella dei grassi animali e vegetali. Discorso a parte concerneva gli oleifici, qualitativamente noti in tutta Italia e guidati dalla fama riscossa dalla famiglia Bertolli (1865): la maggior parte dell’olio raffinato a Lucca nasceva difatti altrove, nonostante le raffinerie lucchesi avessero iniziato a distribuire le proprie filiali tra Puglia, Spagna, Algeria e Marocco. L’impatto più significativo sul piano occupazionale seguitava però ad essere rivestito dalla Manifattura Tabacchi, collocata all’interno delle mura di Lucca. Connessa alla coltivazione del tabacco e una delle quattro presenti in Toscana all’indomani dell’unificazione italiana, nel 1861 vedeva nei suoi reparti già 500 operaie cottimanti: numeri destinati a salire nei decenni successivi, quando le unità passarono dalle 1.490 del 1878 (di cui 1.380 donne) alle 3.050 del 1924.

Meno note erano le cosiddette «scuole di greggio», riservate alla lavorazione del corallo. A fine Ottocento ne esistevano ad Antignano, Ardenza, Montenero e nelle campagne di Pisa e Lucca, per un totale di 5.000 maestranze che includeva anche le lavoratrici a domicilio. Il sistema di lavoro era così strutturato: gli impresari acquistavano nelle fabbriche il corallo greggio a cottimo per farlo tagliare, bucare e arrotondare da operaie precedentemente istruite, ottenendo poi una retribuzione dai fabbricanti. Diverse risultavano invece le «scuole del lavorato», dove le bambine venivano abituate ad assortire i colori, a riconoscere le molteplici qualità del corallo lustrato e all’infilatura: la loro retribuzione settimanale era calibrata a seconda dell’età e della pratica, spaziando – nel 1892 – da un minimo di 30 centesimi ad un massimo di 6 lire per settimana.

La presenza di una rete stradale ben strutturata, l’energia idroelettrica garantita dal sistema fluviale e la vicinanza del mare contribuirono anche allo sviluppo del cartario e del tessile. Entrambi costituivano delle assi portanti della florida rete commerciale lucchese, sostenuti dalla dinamicità del sistema bancario e dall’inclinazione affaristica del capoluogo. La scarsità degli stracci che a fine Settecento aveva rischiato di affossare la produzione della carta era stata ovviata dalla creazione della carta-paglia, un composto di paglia, calcina e acqua brevettato nel 1823 da un farmacista di Villa Basilica. Di conseguenza la cosiddetta «carta gialla da imballo» garantì da subito costi contenuti e alta reperibilità, favorendo una propagazione aziendale che nel 1911 coinvolgeva 106 unità provinciali (la maggior parte delle quali artigianali e a conduzione familiare), 1.400 addetti e 65.000 quintali di produzione annua.

Le coltivazioni di canapa e lino, la commercializzazione della lana e la lavorazione dei tessuti animavano a loro volta l’altra grande settorialità, quella tessile. Le piccole aziende che costellavano la Media Valle del Serchio furono affiancate dalla produzione dei filati cucirini e dall’apertura di numerosi opifici tessili, spesso gestiti da imprenditori provenienti dal Nord Italia o dal resto d’Europa. Le potenzialità del territorio, la ridotta indole conflittuale della manodopera e i bassi costi del lavoro attrassero anche l’impresario Costanzo Cantoni e i fratelli James e Peter Coats, che nel 1904 tramutarono l’ex opificio Smith (situato a Lucca, in località Acquacalda) nella Cucirini Cantoni Coats. Partecipata della potenza multinazionale scozzese, quest’ultima divenne ben presto uno dei perni occupazionali della Toscana nordoccidentale: ai suoi cancelli arrivavano ogni mattina centinaia di persone da ogni parte della provincia, persino dalla Garfagnana e dal pisano. Nella maggior parte dei casi a chiedere una giornata di salario erano contadine provenienti dalle aree circostanti, giovanissime che per aiutare la famiglia si affidavano alle possibilità offerte dalla Cucirini Cantoni Coats e dalla Manifattura Tabacchi; non mancavano neppure coloni e mezzadri, impiegati con processi di turnover o a chiamata giornaliera per integrare con un salario l’esiguo reddito dei campi.

Attorno alla fabbrica sorsero dormitori e scuole industriali, mentre l’iniziale dislocamento dei processi produttivi portò all’apertura di sette stabilimenti connessi alla fabbrica. Vi spiccavano per capacità occupazionale quelli di Quiesa (Massarosa), Ponte a Serraglio (Bagni di Lucca), Marlia (Capannori) e di Gallicano, il solo tra quelli ricordati ad aver mantenuto attivi i propri reparti nel secondo dopoguerra. Buoni livelli d’impiego erano rinvenibili anche nel cotoniero (specialmente al Cotonificio Oliva di Lucca), nei maglifici (come il Gentucca di Lucca) e negli jutifici, tra cui spiccava per importanza la Manifattura Juta di Ponte a Moriano. In drastico calo risultavano invece l’industria delle pelli e quella serica, procrastinando un declino riconducibile alla seconda metà del Settecento: le ultime filande rimaste attive in Lucchesia si estinsero definitivamente nell’arco delle due guerre, cancellando secoli di coltura dei bozzoli e di fiorente tradizione commerciale. Alla fine dell’Ottocento, viceversa, era attribuibile la nascita del calzaturiero locale, che trovava un punto di riferimento nel Calzaturificio di Segromigno (Capannori) e nella produzione di zoccoli.

Salendo verso Fornaci di Barga, l’artigianato presentava rinomate singolarità. A risaltare erano soprattutto i “figurinai”, protagonisti dei grandi flussi migratori che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX spinsero moltissimi lucchesi (tra cui terraioli, muratori, fornaciari e scalpellini) negli Stati Uniti e in America Meridionale. Nelle loro botteghe venivano fabbricate figurine di gesso a stampo ribattezzate “mammalucchi”, lasciate asciugare e dipinte a mano dalle donne. Dal 1915 a dominare lo scenario del borgo fu comunque la Società Metallurgica Italiana (la Smi del Gruppo Orlando), la cui sirena scandì per lungo tempo i ritmi di vita sulla sponda sinistra del fiume Serchio: al suo interno passarono migliaia di operai e di operaie, impiegati e dirigenti, registrando i picchi massimi durante le fasi belliche.

Animata da uno spirito anarchico e conflittuale, la Versilia differiva profondamente dall’indole tendenzialmente conservatrice e cattolica del resto della provincia. Al nobile turismo viareggino della Belle Époque (che affiancava quello termale di Bagni di Lucca) ed al primo sviluppo dei servizi balneari si contrapponeva un numero crescente di cantieri navali ed estrattivi, in continua competizione con quelli dell’adiacente provincia massese. Agli albori del XX secolo dai cantieri costieri continuavano infatti ad uscire rinomate imbarcazioni in legno, dai velieri ai cosiddetti “barcobestia” (la cui produzione fu chiusa attorno al 1950), calamitando i favori di investitori ed acquirenti da ogni parte del mondo. Una scuola successivamente rinvigorita e strutturata dall’intervento degli Ansaldo di Genova, poi lanciata definitivamente dalle creazioni dei cantieri navali Benetti, Picchiotti e Codecasa.

A promuovere l’estrazione del marmo fu invece la ditta Henraux Sancholle di Seravezza. Oltre ad avviare uno sfruttamento intensivo del territorio, quest’ultima contribuì alla realizzazione di una pionieristica ferrovia dei marmi ed allo sviluppo di un apposito porto che corrisponde oggi alla lussuosa location turistica di Forte dei Marmi. Ad inizio Novecento l’attività estrattiva prese forma anche in Garfagnana, dove rimase attiva solo per pochi anni: fu comunque una novità importante per una popolazione prevalentemente dedita al lavoro nei campi ed all’allevamento, tanto da spingere una parte di essa verso le attività estrattive della Versilia e di Massa e Carrara. L’apice dell’estrazione marmifera provinciale fu raggiunto tuttavia nel 1929, quando l’architettura fascista indusse un aumento di richiesta tale da controbilanciare il calo dell’export indotto dal crollo di Wall Street. Non meno importante appariva infine la lavorazione viareggina della cartapesta, destinata a palesare tutto il talento artistico dei suoi artigiani nella realizzazione dei famosissimi carri di carnevale.

Almeno fino al termine del secondo conflitto mondiale, l’assetto occupazionale della provincia non subì variazioni di rilievo. Negli anni della ricostruzione risultavano attive ancora più di 100 cave, affiancate da altrettanti stabilimenti di lavorazione artistica del marmo e da una cinquantina di apposite segherie collocate tra Pietrasanta e Seravezza (ancora oggi la lavorazione del marmo risulta decisamente sviluppata nei due comuni indicati, pur declinata verso produzioni di lusso). Le statistiche consegnavano peraltro un quadro complessivo ben più movimentato di quello aulico, «predomina[to] dall’ambiente agrario e […] dallo spirito commerciale», che Guido Piovene aveva tracciato in seguito alla tappa lucchese del suo Viaggio in Italia (1955). Nel 1951 il 41,5% della popolazione attiva e censita era difatti assorbito dall’industria, prevaricando il dato regionale (39,6%) e nazionale (32%): la percentuale agricola (31,7%) si collocava per converso al sesto posto in Toscana, mentre il terziario e le altre attività corrispondevano al 26,8%.

Lo sviluppo industriale che la provincia aveva conosciuto tra le due guerre si era ripercosso anzitutto sulla redistribuzione del reddito complessivo, valutabile al costo dei fattori e in lire correnti attorno al 41,3%. Una stima decisamente superiore rispetto al 32,58% proveniente dal terziario, al 17,99% del primario e all’8,13% proveniente dalle pubbliche amministrazioni. Ad implementarlo era stato soprattutto un progressivo grado di concentrazione aziendale, specchio di un sistema che nei primi anni Cinquanta continuava a basarsi su di una cerchia ristretta di attività produttive di medie e grandi dimensioni.

La Cucirini Cantoni Coats costituiva forse l’epitome di un processo a cui la grande azienda di filati aveva già dato inizio nel primo decennio del XX secolo: tra il 1906 e il 1935 erano stati ben 21 gli stabilimenti incorporati dalla CCC, dal Cotonificio di Pegli alla Gilles di Borgo a Mozzano, passando per la Bevilacqua di Marlia, la Luti & Co. di Ponte a Moriano e la Ricci, Marconcini & Co. di San Marco. Grazie anche alla spinta dell’Unrra, gli occupati all’ombra della «grande ciminiera» era passati dai 1.300 dell’immediata fase post-bellica (inficiata dai danni provocati dai bombardamenti) ai 4.436 del 1947, finendo poi per assestarsi attorno alle 3.500 unità: in tanti continuavano ad arrivare in bicicletta dalle aree circostanti, spesso alternando – almeno fino alla prima metà degli anni Sessanta – il cottimo in fabbrica al lavoro agricolo. Un impulso rilevate arrivò in un primo momento anche dal settore edilizio (Gemignani Edilizia) e dalle Officine Meccaniche Lenzi di Lucca: dal 1922 ai primi anni Settanta garantirono una media annua di circa 400 posti di lavoro, agevolate dalla presenza di due binari di raccordo che – appena fuori città – consentivano di ricevere e spedire agilmente i prodotti. Il loro massimo produttivo venne raggiunto tra il 1940 e il 1955, quando le continue commissioni provenienti dalle ferrovie dello Stato, dall’autostrada del Sole, dalla Solvay di Rosignano, dalla Montecatini S.p.a. e dalla Saint Gobain di Pisa resero necessario un ampliamento dell’impianto.

Tra il 1951 e il 1963, la crescita dell’economia lucchese generò un aumento del reddito provinciale in lire correnti del 172,4%. Una percentuale estremamente significativa, tale da garantire alla struttura produttiva una tenuta soddisfacente anche di fronte alle oscillazioni congiunturali che si susseguirono tra il 1963 e il 1971. A risaltare per primo fu il processo di deruralizzazione. Tra il 1951 e il 1971 non furono pochi i comuni che al riguardo registrarono percentuali di decrescita significative, rispecchiando la tendenza nazionale: dal -42,9% di San Romano in Garfagnana si cumulava il -39,5% di Altopascio, a cui si aggiungevano Villa Collemandina (-36,7%), Sillano (-35,3%), Montecarlo (-33%), Porcari (-30,6%) e Camporgiano (-30,6%). Sporadiche concentrazioni agricole resistevano ancora a Fabbriche di Vallico (44,5% della popolazione attiva), Giuncugnano (42,3%), Sillano (43,7%), Vergemoli (36,7%) e Castiglione di Garfagnana (35,7%), ma finivano per rivelarsi quasi estinte in Versilia (2,3% a Forte dei Marmi; 2,6% a Seravezza; 5,6% a Viareggio; 6,6% a Stazzema; 7,8% a Pietrasanta), in Lucchesia (6,9% a Lucca) e in alcune aree della Garfagnana (7,6% a Castiglione di Garfagnana; 7,2% a Vagli di Sotto).

L’aumento dei mezzi di trasporto, l’acquisto dei motocicli e delle prime auto agevolarono notevolmente la creazione di una rete occupazione provinciale ed extra provinciale, la quale – a fronte di tabelle retributive ancora esigue rispetto all’Italia settentrionale, specialmente nel manifatturiero – continuava a trovare ottime possibilità negli stabilimenti della Cucirini Cantoni Coats e della Manifattura Tabacchi. Di pari passo si sviluppò un celere processo di terziarizzazione che coinvolse quasi tutta la provincia. L’aumento dei flussi turistici, la possibilità di godere le proprie ferie sulle spiagge della Versilia o sui monti Apuani spalancarono di fatto nuove possibilità di lavoro fisso e stagionale: tra il 1951 e il 1963 il contributo dei servizi al reddito provinciale passò emblematicamente dal 32,58% al 42,29%, arrivando a superare in proporzione il reddito prodotto dal secondario nel 1971.

Proprio nel ventennio 1951-1971, peraltro, il sistema industriale lucchese aveva iniziato a mutare progressivamente la propria fisionomia. A fianco delle grandi unità ebbe inizio una repentina proliferazione di nuove aziende destinate a rapidi processi di sviluppo; al contempo si registrò una significativa espansione di realtà animate fino a quel momento da una natura prettamente artigianale e di modeste dimensioni. Nel 1971 la consistenza media – in termini di addetti – delle unità produttive arrivò pertanto ad aggirarsi attorno alle 8 unità, più alta rispetto alla media regionale (6,75) e lievemente inferire a quella italiana (8,07). Fu questo tipo di struttura ad originare una graduale sostituzione del telaio economico lucchese, favorendo una nuova distribuzione dell’occupazione in settori strategici come quello del calzaturiero. Agli zoccoli di Segromigno (circa l’80% della produzione nazionale) si affiancarono ad esempio lavorazioni sempre più specializzate di rifinitura, attirando l’interesse degli investitori statunitensi: i casi dei Calzaturifici Apice (che, collocato a Bozzano, nel 1967 aveva superato i 1.000 dipendenti) e New Star di Massarosa furono emblematici di un processo più ampio, il cui peso corrispondeva negli anni Settanta e Ottanta al 40% dell’export provinciale.

Lo sviluppo di tecnologie avanzate ed il potenziamento dell’autostrada Firenze-mare incentivarono la diffusione di nuove aziende cartarie tra Altopascio, Porcari e Capannori, dove nel 1971 potevano essere censiti 4.000 occupati e 211 unità. Alla crisi di attività storiche come i Calzifici Ambrosiano di Pietrasanta e di Castelnuovo Garfagnana e delle Officine Meccaniche Lenzi, soffocate dai primi processi di decentramento produttivo, si contrappose parimenti la crescita numerica di altre piccole e medie imprese: fu così per gli Imballaggi Nottoli di Capannori, l’Italcarton di Porcari, la Plinc Confezioni di Borgo a Mozzano e di Castelnuovo Garfagnana, la Salpit di Porcari, la Cartiera Ondulato San Martino di Pescaglia, la Prebeton di Massarosa e il già ricordato Oleificio Bertolli.

A Gallicano gli investimenti della Snia Viscosa portarono invece la Società italiana prodotti esplodenti (protagonista di una tragica esplosione nel 1953) a riconvertire la propria produzione verso la nitrocellulosa, mentre la meccanica e la metallurgia attinsero nuova linfa da C.o.f. Impianti frigoriferi, dalla Colged di Lucca e dalle Officine Meccaniche Toschi di Capannori. Evoluzioni si registrarono oltretutto nel campo dei colorifici (dall’Oleificio Salov di Viareggio al Colorificio Cover di Altopascio) e delle materie plastiche: operavano in questo settore la Metaplastica Lucchese e la Selene F.lli Servini di Lucca, correlate alla produzione di confezioni delle Confezioni Turchetto di Montecarlo e dello Scatolificio Carsonna di Barga.

Pur alimentato da produzioni qualitativamente alte come quelle dei maglifici My Styles e Florentine Flowers di Lucca, alla fine degli anni Settanta fu il tessile (in linea con la curva nazionale) ad accusare una prima flessione. Nella tenuta complessiva del settore industriale provinciale l’atomizzazione del manifatturiero generò infatti un calo complessivo della popolazione attiva nel settore, passata dal 47,2% del 1960 al 46,8% del 1970. Le conquiste del primo rivendicazionismo operaio e impiegatizio e la possibilità di sfruttare i finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno spinsero inoltre realtà importanti come la Cucirini Cantoni Coats ad avviare un primo processo di decentramento, concretizzatosi nell’apertura di due nuove unità a Rieti e a Foggia. Al Maglificio Gentucca i licenziamenti colpirono diversamente 47 maestranze nel 1971 (tutte donne), riflettendo la crisi progressiva del tessile italiano e la sua riconversione verso i settori dell’alta moda e del prêt-à-porter. Tornò così a crescere il lavoro a domicilio, regolamentato solo in parte dalla legge del 18 dicembre 1973: fu comunque quest’ultima a controbilanciare la crescita delle aziende iscritte all’apposito registro dei committenti (46 in più tra il 1973 e il 1974) con un calo totale degli addetti (da 837 a 759 unità), impiegati prevalentemente nel ramo del tessile, dell’abbigliamento, delle confezioni (il 35% della manodopera, con retribuzione media di 40.000 lire al mese) e delle calzature (10%, per 35.000 lire di retribuzione media).

La questione di genere e le prime politiche di flessibilità occupazionale investirono per di più la Cucirini Cantoni Coats, dove tra il 1974 e il 1978 il totale degli addetti diminuì in ogni reparto: 1.175 uomini (41%) e 1.686 donne (59%) uscirono dallo stabilimento dell’Acquacalda e dalla succursale di Gallicano; tra questi il 38% era composto da operai, il 62% da operaie, il 71% da impiegati e il 29% da impiegate. Il frazionamento produttivo, l’impatto delle politiche neoliberiste e le oscillazioni della lira assestarono un duro colpo anche al calzaturiero: lo zoccolo finì rapidamente ai margini della produzione locale, sostituito dai sandali e dalla scarpa di lusso (tutt’oggi richiesta e branca del distretto calzaturiero toscano). Dove possibile la strategia produttiva virò dunque dal quantitativo al qualitativo, abbandonando le fasce di mercato più basse e puntando tutto sul richiamo dell’export made in Tuscany.

Dal 1981 al 1991 il settore industriale della Piana di Lucca registrò una perdita del 21% delle unità locali e del 15,3% del numero di addetti: un esodo complesso, impossibile da assorbire per interno anche dal settore terziario. La contrazione del numero di unità locali risultò tuttavia inferiore rispetto a quella del numero di dipendenti (1981-1991); così anche in Versilia, confermando i termini di una deindustrializzazione capace di rafforzare sul totale la quota delle piccole imprese e di colpire quelle di medie dimensioni. Una contrazione più moderata si verificò nella Media Valle del Serchio, probabilmente a fronte della scarsa diffusione zonale del sistema terziario; al contrario la Garfagnana vide aumentare il proprio numero di unità locali (11%) e sprofondare quello degli addetti (-21%), rispecchiando la tendenza provinciale alla diminuzione della dimensione media dell’impresa (dai 7,1 addetti del 1981 ai 5,1 del 1991).

Nell’ultimo trentennio l’insieme di questi fattori e la persistenza di una matrice industriale di carattere manifatturiero (nel 1981 vi apparteneva ancora il 78% degli addetti del sistema industriale, a fonte del 15% impegnato nel ramo delle costruzioni e del 2% in quello dell’energia) hanno comportato la riproduzione di un radicato sistema distrettuale a specializzazione flessibile. Dapprima satellite terzista dei grandi stabilimenti, poi produttrice plurisettoriale e collaterale, la componente imprenditoriale lucchese è stata capace di dar forma a distretti compositi sul piano settoriale, caratterizzati cioè da diversificazioni produttive non necessariamente complementari e potenzialmente capaci di ammortizzare nell’eterogeneità settoriale fasi di crisi e micro-crisi. Al contempo, è corretto precisare che questo tipo di struttura creò da subito una sostanziale difficoltà cooperativa tra le diverse realtà: da una parte, le relazioni di competizione fra le imprese che producevano lo stesso prodotto finirono con il prevalere sulle relazioni di collaborazione; dall’altra, la dimensione plurisettoriale frenò sul nascere la possibilità di costruire più ampie esperienze cooperative. Ciò costituì in ogni caso un punto di forza sul piano sociale, tanto per il riassorbimento della manodopera in esubero, quanto per la possibilità di incentrare l’economia su una domanda differenziata. Escluso da questa dinamica risultò viceversa il distretto cartario: riconosciuto con la Delibera del Consiglio Regionale 69/2000 (Individuazione dei distretti industriali e dei sistemi produttivi locali manifatturieri), risulta ancora oggi uno dei più importanti su scala continentale. Quest’ultimo si estende su di un’area di circa 750 chilometri e comprende i dodici comuni di Capannori, Porcari, Altopascio, Pescia, Villa Basilica, Borgo a Mozzano, Fabbriche di Vallico, Gallicano, Castelnuovo Garfagnana, Barga, Coreglia, Antelminelli e Bagni di Lucca, detenendo il controllo di circa l’80% della produzione nazionale di carta velina e un valore prossimo al 40% della produzione di cartone ondulato nazionale.

A parziale differenza del decennio precedente, la crisi che nel corso degli anni Novanta colpì anche le piccole e medie imprese lucchesi riuscì comunque ad essere superata grazie all’impatto del terziario. Al crollo dei settori lapideo (dalle 621 unità del 1991 si passò alle 500 del 2001; simultaneamente, il numero di addetti scese da 4.194 a 2.613, per un -37,6%), estrattivo e manifatturiero (da 40.692 a 38.334 unità, -5,7%) corrispose difatti un’impennata del numero di lavoratori attivo nei servizi: da 52.390 a 66.273 (+25,4%). Di conseguenza, la quota dell’occupazione provinciale impiegata in aziende di servizi passò dal 46,6% al 56,2%, mentre quella industriale scese dal 36,2% al 32,5%. Ovviamente, le ragioni della flessione non potevano essere valutate al netto dei fattori macroeconomici: basti pensare che solo il lapideo conobbe una flessione particolarmente accentuata, specchio delle crisi che aveva colpito il settore sul piano nazionale. Per il resto il calzaturiero regredì da 5.816 a 4.604 addetti (-20,8%); il settore alimentare da 3.411 a 3.011(-11,7%); il cartario passò invece da 5.568 a 6.643 (+19,3%); la cantieristica da 1.317 a 1.793 (+30,8%); il meccanico da 2.781 a 3.085 (+10,9%).

Venendo ad oggi, l’aumento della precarizzazione del lavoro è stato più evidente negli anni immediatamente precedenti e successivi alla grande crisi del 2008. La modesta variazione positiva – in termini di individui attivi – registrabile nel 2013 migliorava di poco solo nel campo degli avviamenti: dal +1,7% del commercio al +11,1 dei trasporti, fino al +1,3% dei servizi alle imprese. L’incoerenza tra la variazione degli avviati e le variazioni degli avviamenti indicava parimenti una tendenza al ricorso a tipologie contrattuali aleatorio, contemplando la possibilità di avviare più volte uno stesso lavoratore nel corso dell’anno (e non necessariamente nella stessa impresa, specialmente nel campo della ristorazione). A ciò si affiancava una stima di disoccupazione oscillante tra le 15.000 e le 20.000 unità (a fronte dei 68.000 iscritti nelle liste di collocamento), problematizzando il costante incremento di iscrizioni negli elenchi da pare di lavoratori stranieri (dai 2.445 del 2008 ai 3.350 del 2013, pur in flessione percentuale rispetto ai primi anni Duemila).

La crisi più rilevante poteva essere ricondotta alla Versilia, sommando al decremento della produzione manifatturiera una certa flessione del turismo; quest’ultimo risultava ben più in salute nel capoluogo, grazie alla valorizzazione del patrimonio artistico ed alla pluriennale presenza di eventi di grande richiamo come il Lucca Comics and Games, VerdeMura o il Lucca Summer Festival. Da questo punto di vista non è mancata neppure una crescita del turismo sportivo, recentemente promossa nell’area di Bagni di Lucca e della Garfagnana, al pari della moltiplicazione delle attività di ristorazione legate alla valorizzazione delle specialità alimentari.

La provincia è stata quindi capace di ampliare i settori dell’offerta occupazionale e di adattare parte delle proprie unità ai mutamenti della domanda di mercato, specialmente dopo lo smaltimento della cassa integrazione che molte aziende del territorio avevano accumulato negli anni della crisi. All’importanza del cartario e di multinazionali come la Kme Group di Fornaci di Barga (evoluzione della Smi) si è registrato anche un sintomatico aumento dei centri commerciali, pur in un universo lavorativo segnato dalla crescita del precariato (anche scolastico, a fronte di un incremento del numero di scuole sul territorio). Ad essere progredita è stata inoltre la richiesta di professionisti ad alta e media specializzazione, soprattutto nell’area distrettuale del cartario e nel ramo dei servizi, così come la presenza di professionisti e impiegati nelle associazioni del Terzo settore, nel campo bancario e nei servizi sanitari (con 20 distretti all’interno dell’Azienda Usl Toscana nord ovest).

Infine, dopo la flessione indotta dalla crisi del petrolio e la chiusura di numerosi cantieri nel corso degli anni Ottanta, un ruolo chiave è stato assunto dalla nautica da “diporto”: pur tra andamenti oscillanti Viareggio ne è divenuto infatti uno dei leader mondiali, tanto che – secondo la classifica del SuperYatch Times – il 44% delle navi extralusso sopra i 30 metri prodotto nel 2016 era da ricondursi proprio al centro versiliese.

Federico Creatini

09/01/2023


Breve bibliografia di riferimento

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